No alle classi ghetto – è corretto parlare di razzismo?

Di Alessia Martino 07/10/2018
Qualche mese fa un articolo del Il Giornale, recitava così:

 

No alle “classi ghetto”: esclusi 60 bimbi stranieri dalle scuole materne

A Monfalcone il sindaco ha fissato al 45% il tetto massimo della presenza non italiana e italofona (Il Giornale – Mar, 10/07/2018 )

 

L’ articolo, risalente al 10 luglio scorso, si riferisce ad un caso che ha fatto discutere, e non poco, anche per l’approvazione ricevuta dal ministro Salvini che in un post su Facebook commentava: “Bravo il sindaco (leghista) di Monfalcone, occorre rispettare un limite massimo di bimbi stranieri per classe”. Il caso in questione riguardava il sindaco di un comune friulano che aveva deciso di fissare un tetto massimo per l’inclusione degli stranieri nelle varie classi.

La vicenda è stata bollata immediatamente come un fenomeno di razzismo, complice anche la strumentalizzazione del Ministro dell’Interno e la poca informazione circa le norme vigenti in materia di inclusione. Viene da chiedersi, dunque, quanto tutto ciò possa effettivamente essere attribuibile ad un pregiudizio, purtroppo assai ricorrente verso gli stranieri e in maniera particolare verso coloro i quali provengono dall’Africa del nord, e quanto invece fosse un provvedimento necessario.

È opportuno precisare che nell’articolo si parla sì di stranieri, ma il discorso dovrebbe essere spostato su “italofoni e non“. I non italofoni non parlano la lingua italiana e pertanto, anche nel caso in cui il bambino sia italiano e non parli la nostra lingua, questi viene catalogato come non italofono. È un discorso, questo, che va oltre la mera nazionalità. In più, che siano di seconda generazione o no, rimangono comunque italofoni o non italofoni, a seconda che se i genitori gli abbiano parlato in italiano o glielo abbiano insegnato. Concentriamoci quindi su questo tipo di classificazione.

Questa esclusione di cui parla l’articolo, all’apparenza ingiusta, risulterebbe sensata se si considerasse il fattore dell’apprendimento e della lingua.

Una classe con una concentrazione troppo alta di bambini che non parlano l’italiano creerebbe un ambiente di apprendimento sfavorevole sia per loro che per i soggetti italofoni.

Un “Tetto massimo al 45%” sta a significare che praticamente la metà dei bambini in una classe non è in grado di comunicare nella nostra lingua, né di riuscire a seguire una lezione. Ne deriverebbe una didattica molto rallentata, con la difficoltà di attuare una vera e propria individualizzazione dell’insegnamento e di rendere l’offerta formativa accessibile a tutti.

D’altra parte, come accennato, una classe così composta causerebbe non pochi problemi anche agli studenti non italofoni. Nell’età cruciale del periodo critico (fino ai 6-8 anni ndr), i bambini avranno non poche difficoltà ad avere contatti con l’italiano e, inoltre, gli insegnanti (anche se di italiano L2 in una classe mista di questo tipo) non saranno sufficientemente preparati a rispondere alle esigenze di tutti.  Per l’apprendimento di un’altra lingua L2 questi anni sono fondamentali e deve esserci tutto “un protocollo” da seguire, cosa resa ancora più evidente dal fatto che la scuola è il luogo in cui ha luogo il contatto fondamentale con l’italiano, con i docenti ma soprattutto con i compagni di classe. Sul piano sociale un numero troppo alto di soggetti non italofoni in una classe potrebbe poi provocare la formazione di gruppi distinti e di fenomeni di emarginazione.

Tutto ciò rappresenta un ulteriore potenziale danno per questi bambini.

La C.M. 205 del ‘90 raccomanda di limitare l’inserimento di alunni stranieri a “qualche unità per classe” (Clicca qui per approfondire) per consentire ai docenti di seguire più da vicino tali alunni nell’apprendimento. L’assegnazione alla classe va quindi fatta in modo da distribuire, per quanto possibile, in più classi gli alunni stranieri (e nomadi), in modo da agevolarne l’inserimento. È importante che non si creino situazioni ghetto o di concentrazione di disagi che mettano in difficoltà il lavoro educativo e didattico di tutti i giorni e che in prospettiva possano creare fenomeni di emarginazione e innescare dinamiche di ulteriori squilibri.

Dunque, proprio per consentire un corretto processo di integrazione, è necessario che questi studenti vengano inseriti in classi con più bambini italofoni. Qui la nazionalità non c’entra, la questione principale è la lingua ed è quindi molto probabile che la divisione sia stata fatta sulla base di questo criterio.

In più, giacché si parla di lingua, da una classe come quella citata nell’articolo degli stranieri che parlano l’italiano non avrebbero alcun motivo di essere esclusi.

 

 

     Alessia Martino