FIGLI SOTTRATTI DAL SISTEMA

Aspetti normativi.
La questione dei minori, che vivono in situazioni familiari problematiche, è di estrema delicatezza ed importanza, soprattutto per le implicazioni psicologiche ed esistenziali per coloro che già sono vittime di un dramma familiare e che non devono rischiare di diventare contemporaneamente vittime di un sistema burocratico.
Il minore, nella visione giuridica attuale, è un soggetto di diritti e doveri, che hanno determinato, in ambito nazionale, la configurazione di una speciale protezione e garanzia, quale quella statuita dalle L.431/1967 e 184/1983 sul riconoscimento del diritto ad avere una famiglia anche adottiva.
Il principio cardine della tutela rimane quello di cui all’art.3 della Costituzione, connesso all’art.2, per cui la dignità prescinde anche dall’età del soggetto; altrettanto fondamentale è la norma di cui all’art.30, sul ruolo dei minori all’interno della famiglia, nonché l’art.31, co.2, relativo alla protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù.
In ambito internazionale, emergono: la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (10.12.1948), che riafferma la centralità della famiglia e la speciale assistenza che deve essere assicurata sia alla madre che al bambino; il preambolo della dichiarazione dei diritti del fanciullo ( 20.11.1959); il protocollo addizionale di Parigi sull’istruzione (20.3.1952); la convenzione sui diritti del fanciullo (20.11.1989).
I principi dettati dalla normativa nazionale ed internazionale dovrebbero costantemente ispirare tutti gli interventi effettuati per tutelare il minore, che deve rimanere il soggetto protagonista, con le sue esigenze e la sua sensibilità, delle procedure, atte a migliorare la sua condizione di vita, non un oggetto di intervento, secondo la rigida applicazione di protocolli.
Il nostro ordinamento infatti prevede strumenti atti a garantire la tutela del minore, che possono rivelarsi effettivamente efficaci, a condizione che si mantenga una altissima attenzione nei confronti della singola storia e natura del soggetto protetto.
Il primo strumento previsto, nell’ipotesi di abbandono morale o materiale del minore o di allevamento dello stesso, in locali insalubri o pericolosi, o da parte di persone negligenti ed immorali o ignoranti o per altri motivi incapaci di provvedere alla sua educazione, è quello di cui all’art.403 c.c. che prevede, in tal caso, l’intervento della pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, che lo collochi in un luogo sicuro, fino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione. Detto strumento ha carattere “eccezionale” in quanto prevede l’intervento della pubblica autorità (organi di Polizia, organi deputati all’assistenza dei minori ed alla protezione dell’infanzia) anziché dell’Autorità Giudiziaria, in quanto si concreta in un atto di amministrazione e non di giurisdizione, sia per l’oggetto, essendo un atto di volontà, che per la qualità dei soggetti da cui promana, ma soprattutto in quanto è necessario che vi sia un grave pericolo per l’integrità fisica e psichica del minore, della cui effettiva sussistenza si assume la totale responsabilità il soggetto che effettua l’intervento, oltre che una condotta pregiudizievole da parte dei genitori, come prescritto dall’art.333 del c.c.
E’ evidente come la situazione che legittima l’utilizzazione di uno strumento di tal genere debba essere particolare ma soprattutto debba avere la caratteristica dell’urgenza, per cui sia necessario collocare in ambiente protetto il minore, senza indugio e senza attendere i tempi di pronuncia da parte del Tribunale dei minori, il quale comunque interverrà sulla scorta della denuncia che i servizi territoriali devono fare con urgenza al Pubblico Ministero.
L’eccezionalità dello strumento comporta altresì che il provvedimento di allontanamento del minore dalla famiglia sia temporaneo e che il reinserimento non avvenga, finchè il Tribunale per i minori non intervenga a decidere se mantenere o meno la misura eccezionale.
Un ulteriore strumento di tutela è quello previsto dalla L.4 maggio 1983 n.184 e successive modifiche apportate con la L.28 marzo 2001 n.149 (che non abroga la L.184 bensì la modifica parzialmente), che disciplina l’affidamento del minore, di cui sia stato stabilito l’allontanamento dalla famiglia d’origine.
Il contesto di applicazione della norma è diverso da quello precedentemente descritto in quanto, in questo caso, la valutazione della inidoneità della famiglia d’origine all’accudimento del minore è stata fatta dal Tribunale dei Minori, anche se la “gestione” dell’affidamento è particolarmente delicata, proprio perché, alla luce dei risultati di tale “gestione”, l’autorità giudiziaria assume la decisione di reinserimento del minore nella famiglia d’origine, che è auspicabile, a meno che i genitori non versino in una situazione di inidoneità sostanzialmente immodificabile, tale che il reinserimento sia pregiudizievole per il minore.
E’ interessante osservare il percorso, che ha condotto alla emanazione dellaL.149 del 2001, per comprendere gli effetti che la nuova disciplina può avere sulla tutela del minore.
L’art. 5 della L. 184 del 1983 prevedeva che l’obbligo dell’affidatario “di agevolare i rapporti tra il minore ed i suoi genitori e di favorirne il reinserimento nella famiglia d’origine” (la norma usava il verbo “deve”).
L’art.5, è stato modificato dalla L.149 del 2001 in modo sostanziale, in quanto non contiene più il suddetto obbligo bensì una diversa formulazione, secondo cui il servizio sociale, nell’ambito delle proprie competenze, su disposizione del giudice, ovvero secondo le necessità del caso, svolge opera di sostegno educativo e psicologico, “agevola i rapporti con la famiglia di provenienza ed il rientro nella stessa del minore, secondo le modalità più idonee, avvalendosi anche delle competenze professionali delle altre strutture del territorio e dell’opera delle associazioni familiari eventualmente indicate dagli affidatari”.
Appare di immediata evidenza come la modifica della norma sia stata sostanziale, in quanto è stata attribuita al Servizio Sociale una facoltà che prima non aveva, ossia la facoltà di determinare, a sua discrezione, le modalità più idonee nell’agevolazione dei rapporti tra minore e la sua famiglia d’origine, nonché nel rientro nella stessa del minore.
Il potere del Servizio Sociale è stato così rafforzato, con un conseguente esonero del Tribunale per i Minori, dalla effettiva gestione dell’affidamento, che spetta di fatto prevalentemente al Comune.
Questa modifica sostanziale fa riflettere, soprattutto se letta alla luce di una sentenza emessa dalla Corte Europea di Strasburgo il 13 luglio 2000 con la quale lo Stato Italiano veniva condannato a risarcire duecento milioni di vecchie lire a favore di una madre italiana (Sig.ra Dolorata Scozzari), che aveva fatto ricorso davanti alla Corte per denunciare vessazioni subite dalle istituzioni italiane, dopo l’allontanamento dei figli.
Lo spostamento della responsabilità sul Servizio Sociale nella gestione e controllo dell’affidamento crea uno squilibrio eccessivo, esponendo il minore a determinazioni, che possono essere influenzate da fattori di soggettiva interpretazione e non di oggettivo riscontro, garantito da un vaglio giudiziario, che, data la estrema delicatezza degli interessi tutelati, deve essere costantemente presente.
Si consideri anche il fatto che, nonostante la ridefinizione del profilo delle politiche sociali effettuata dalla L.328 del 2000, ossia la “ Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali “, grazie alla quale si è giunti alla creazione di un quadro normativo unitario, valido per l’intero territorio nazionale, che ha consentito una maggiore efficacia di intervento del Servizio Sociale, molte lacune appaiono ancora sussistenti, anche alla luce delle scarse ricorse economiche di cui possono disporre i Comuni.
Per quanto si affermi che la suddetta legge ha segnato il passaggio da una accezione tradizionale di assistenza, come luogo di realizzazione di interventi meramente riparativi al disagio, ad una concezione di protezione sociale attiva, luogo di rimozione della cause del disagio, e di promozione dell’inserimento della persona nella società, attraverso la valorizzazione della sua personalità, la realtà dei fatti dimostra che spesso gli interventi dei servizi sociali non sono così efficaci nel perseguimento di queste nobili finalità.
Pertanto, pur essendo comunque auspicabile un intervento atto a garantire una preparazione di alto livello ed un costante aggiornamento degli operatori del servizio sociale, è altrettanto auspicabile un intervento atto a riportare la gestione ed il monitoraggio dell’affidamento, all’interno del procedimento giudiziale, dove il giudicante può essere costantemente supportato da figure professionali particolarmente esperte e le parti, compreso il minore assistito dal proprio difensore, possono dare un importante apporto nella costruzione di un percorso efficace, al fine di garantire la massima salvaguardia del diritto di un bambino ad avere una vita sana, a vivere in un contesto umano accogliente, che sappia rispettare le sue esigenze e sviluppare le sue inclinazioni amorevolmente.
Risvolti psicologici.
La famiglia è il centro del mondo per ogni bambino, è il luogo nel quale si deve sentire accolto, deve respirare amore, affetto, deve scoprire il valore della condivisione, dell’armonia; è il luogo dove impara a fidarsi degli altri, a crescere, a diventare autonomo.
Ma se un giorno qualcosa spezza tutto questo e la famiglia diventa il luogo dell’orrore, della violenza, dell’incuria, del terrore, dove non ci sono più figure buone ma solo orchi, dove lui stesso è vittima di violenza o di soprusi, cosa è la cosa giusta???
Ogni genitore dice di amare i propri figli più di se stesso, ma oltre alle parole c’è un dovere morale e anche giuridico di protezione, assistenza e obbligo di cura. Tali obblighi devono essere adempiuti da entrambi i genitori e sono di natura strettamente personale, cioè non possono essere delegati ad altri.
Se ciò non avviene, ossia nei casi in cui altri devono intervenire per supplire alle carenze e agli adempimenti del genitore negli obblighi di cura del figlio, significa che ci si trova in uno stato di bisogno, che può recare un danno al minore, sia fisico che psichico.
L’esperienza in campo peritale come psicologi, ci ha portato ad identificare alcune gravi situazioni nelle quali si interviene per tutelare il benessere fisico e psichico del minore, con azioni diverse a seconda della gravità, tra queste:

  • genitore violento con il figlio o con la madre;
  • genitore che influenza negativamente il figlio verso l’altro genitore, da lui considerato colpevole per esempio, della rottura del matrimonio; inducendo il figlio a rifiutare qualsiasi contatto con lui (chiamata PAS Parental Alienation Syndrome, cioè sindrome da alienazione genitoriale);
  • genitore con condotte di tipo equivoco e o malavitoso;

Quando i minori vengono sottratti alle famiglie la valutazione congiunta tra professionisti (giudici, legali, psicologi, assistenti sociali), avviene sulla base di elementi e di fatti concreti che non fanno intravvedere altra via per il benessere del minore. Deve essere chiaro che comunque la decisione che viene presa è un percorso educativo condiviso dalle diverse figure professionali coinvolte che non esclude la famiglia di origine, salvo in casi molto eccezionali, perché nel salvaguardare il minore, si cerca di predisporre programmi di intervento sull’ acquisizione delle competenze genitoriali, anche per i genitori che potranno riavere alla fine dello stesso percorso, i propri figli.
Per tale motivo, nei casi in cui si interviene con eccessiva durezza, con i il provvedimento della sottrazione del minore, probabilmente non ci si è avvalsi a sufficienza dell’ausilio, da parte del consulente psicologico, oppure non vi è stata un’esposizione veritiera dei fatti, ad opera di una delle parti, non sufficientemente approfondita dall’organo giudicante.
L’allontanamento è comunque nei casi sopracitati, dolorosamente uno strumento funzionale per offrire una via di fuga ai figli, da un ambiente conflittuale e quindi nocivo.
E’ stato accertato da molti studi che chi assiste, a violenze sia fisiche che psicologiche, abbia più probabilità di soffrire di stati di ansia e di rivelare in seguito comportamenti aggressivi che si potranno riflettere inesorabilmente in futuro sui propri figli.
Assistere alla violenza in famiglia è un’esperienza che segna profondamente la vita suscitando emozioni forti e traumatizzanti; non solo vedere, ma anche sentire il rumore delle percosse, della rottura degli oggetti, le voci alterate, le minacce, gli insulti, le grida, i pianti, ha un impatto doloroso, confonde e spaventa il bambino.
Anche se il bambino quando i fatti avvengono è fuori, ma constatarne gli effetti, per es. vedendo mobili o oggetti distrutti, la madre con ematomi, ha un effetto molto doloroso e lo spaventa; inoltre egli è molto sensibile allo stato d’animo delle vittime e riesce a percepire la tristezza, la disperazione, l’angoscia, il terrore e a interiorizzarli.
Per la sua crescita e per uno sviluppo competente, il bambino deve avere al suo fianco dei genitori che lo aiutino, con le loro abilità di adulti, a sviluppare
l’intelligenza cognitiva che gli permetta di evitare gli errori e gli permetta di sperimentare nuove abilità.
L’adulto è il genitore nutritivo che viene percepito come fonte di sicurezza che da benessere e proietta verso il futuro.
Quando invece è vissuto come minaccioso il bambino lo evita, si isola, gli mancano pertanto i punti di riferimento a cui appoggiarsi e su cui contare e potersi fidare e cade in una profonda solitudine caratterizzata da smarrimento e fragilità.
Questa esperienza non gli permetterà di sviluppare in futura delle sane relazioni sociali e potrà diventare o vittima di soprusi o egli stesso essere un maltrattante.
Le emozioni che descrivono maggiormente i bambini che vivono in famiglie conflittuali, e che riportano di aver provato sono: vergogna, senso di colpa, paura di tutto, difficoltà di socializzazione, sconforto, impotenza, delusione e sfiducia verso chi avrebbe il dovere genitoriale di sottrarli dalla violenza (vittima e carnefice).
Infine vorrei fare un’ultima riflessione sulla quotidianità delle segnalazioni che ci arrivano, non solo nei centri specializzati, ma che tutti possiamo vedere nei fatti di cronaca recente, di separazioni o divorzi difficili o di comportamenti deviati di minori che loro malgrado li devono vivere in prima persona; questi avvenimenti non ci lasciano sicuramente indifferenti, suscitano in ognuno di noi un senso di amarezza e di incomprensione verso quei genitori che inconsapevolmente????? Strumentalizzano i propri figli.
L’odio e il rancore che spesso anima gli ex coniugi spesso li spinge ad attuare strategie di vendetta e ripicche che inevitabilmente si riflettono o hanno come
protagonisti proprio i minori, la parte debole, il frutto del loro passato amore, e arrecano loro sofferenze e violenze psicologiche permanenti.
Quando una famiglia entra in crisi, è indiscutibile che per i figli rappresenta una situazione di sofferenza, per cui forse non è solo l’azione forzata che agisce sulla separazione genitori figli, a volte anche nelle famiglie apparentemente unite il divario è ampio e la separazione genitori figli, diventa più subdola con lo sviluppo di sofferenze psicologiche che si sviluppano nei figli sia nell’area cognitiva che in quella emotiva, che in quella psico-sociale, portando inesorabilmente ad una disgregazione del sistema familiare.
Personalmente ritengo che nei casi meno drammatici possa essere configurato un affidamento diurno, che aiuti le famiglie in difficoltà ed ancor prima i figli a confrontarsi anche con abitudini di famiglie sane, soprattutto in momenti molto delicati della crescita.
Avv.to Paola Briani           Dott.sa Franca Consorte.