Elaborato Avv. Stefano Puppini – Convegno 2007

La responsabilità civile dei magistrati tra attuali prospettive

di riforma e risvolti sociologici

 


Ai miei genitori e a mia sorella

 

 


Parte prima

La responsabilità civile dei magistrati è disciplinata dalla legge 13 aprile 1988, n. 117.

Si tratta di una disciplina speciale sia rispetto a quella generale sia rispetto a quella della responsabilità civile dei pubblici impiegati.

Essa si applica a tutti gli appartenenti alle magistrature ordinaria, amministrativa, contabile, militare e speciali che esercitano l’attività giudiziaria, indipendentemente dalla natura delle funzioni, compresi i magistrati che esercitano le proprie funzioni in organi collegiali, nonché agli estranei che partecipano all’esercizio della funzione giudiziaria (art. 1 commi 1 e 2 legge 117/1988).

Nelle disposizioni di cui agli artt. 2 e seguenti della legge 117/1988, il termine magistrato comprende tutti i soggetti indicati nell’art. 1 commi 1 e 2 legge 117/1988 (art. 1 comma 3 legge 117/1988): non quindi in tali due commi.

Infatti, l’art. 7 comma 3 legge 117/1988 detta per gli estranei alla magistratura che fanno parte di organi giudiziari collegiali una disciplina diversa rispetto a quella dei magistrati propriamente detti.

La disciplina prevista dalla legge 117/1988 non si applica a chi ha subito un danno in conseguenza di un fatto costituente reato commesso dal magistrato nell’esercizio delle sue funzioni, nel qual caso il danneggiato ha diritto a risarcimento nei confronti del magistrato e dello Stato, l’azione civile per il risarcimento del danno ed il suo esercizio anche nei confronti dello Stato come responsabile civile sono regolati dalle norme ordinarie e si procede all’azione di regresso dello Stato, se tenuto al risarcimento nei confronti del danneggiato, secondo le norme ordinarie relative alla responsabilità dei pubblici dipendenti (art. 13 legge 117/1988).

La legge 117/1988 non si applica ai giudici costituzionali perché: la Corte costituzionale non è compresa nell’espressione “magistrature speciali” (che comprende quelle tributaria, delle acque pubbliche ed altre che si occupano di questioni amministrative), come in tutti gli altri casi in cui si tratta di distinguerle da quelle elencate nell’art. 1 comma 1 legge 117/1988, per l’immunità di cui godono e per l’insindacabilità da parte delle altre magistrature degli atti della Corte costituzionale.

La legge 117/1988 non si applica ai parlamentari perché non possono essere chiamati a rispondere di quanto compiuto nell’esercizio delle loro funzioni e perché gli atti che compiono nell’esercizio delle loro funzioni non possono essere sindacati dall’autorità giudiziaria, salvo che in sede di giudizio di costituzionalità[1].

Si applica però agli organi di autodichia del Parlamento.

Per quanto riguarda la sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, la questione è controversa, a causa del disposto dell’art. 32bis della legge 195/1958, secondo cui i componenti del Consiglio superiore della magistratura non sono punibili per le opinioni espresse nell’esercizio delle loro funzioni e concernenti l’oggetto della discussione.

Per una prima opinione, ciò comporta la non applicabilità della legge 117/1988.

Per una seconda opinione, l’art. 32 bis legge 195/1958 esclude l’applicazione della legge 1117/1988 nella parte relativa alla responsabilità dei singoli, ma non per quanto riguarda la parte relativa alla responsabilità dello Stato.

Chi scrive ritiene che l’art. 32 bis legge 195/1958 non escluda l’applicabilità della legge 117/1988, perché se è vero che la responsabilità civile ha una componente sanzionatoria (anzi, la legge 117/1988 parte appunto da questo presupposto), l’espressione “non punibile” si deve intendere, per com’è comunemente usata, come riferita alla responsabilità penale e non a quella civile.

Si discute se la legge 117/1988 si applichi alla volontaria giurisdizione.

La soluzione dipende dalla risoluzione della questione che è alla base: se la volontaria giurisdizione sia parte della funzione giudiziaria o di quella amministrativa[2].

Secondo un’opinione, però, l’espressione funzione giudiziaria avrebbe diverso significato a seconda che si riferisca ai magistrati oppure agli estranei che partecipano alla funzione giudiziaria.

Chi scrive non ne vede ragione: la volontaria giurisdizione non cambia certo natura a seconda se affidata a magistrati o ad estranei.

Né il fatto che per i magistrati è usato il termine attività, mentre per gli estranei è usato il termine funzione cambia qualcosa, essendo l’attività giudiziaria sempre funzione in altre parole attività giuridicamente rilevante nella sua globalità.

Ciò che vale per la volontaria giurisdizione vale anche per i procedimenti di attuazione di diritti potestativi (se si accetta l’opinione di Salvatore Satta che li distingue sia dalla giurisdizione volontaria sia da quella contenziosa), per l’attività di sorveglianza e per quella di applicazione delle misure di prevenzione.

Nel campo delineato dall’art. 1 legge 117/1988, chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale (art. 2 comma 2 legge 117/1988).

Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove (art. 2 comma 2 legge 117/1988):

Costituiscono colpa grave: la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile; l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento; la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento; l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione (art. 2 comma 3 legge 117/1988).

Costituisce diniego di giustizia il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria; se il termine non è previsto, devono in ogni caso decorrere inutilmente trenta giorni dalla data del deposito in cancelleria dell’istanza volta ad ottenere il provvedimento (art. 3 comma 1 legge 117/1988).

Il termine di trenta giorni può essere prorogato, prima della sua scadenza, dal dirigente dell’ufficio con decreto motivato non oltre i tre mesi dalla data di deposito dell’istanza; per la redazione di sentenze di particolare complessità il dirigente dell’ufficio, con ulteriore decreto motivato adottato prima della scadenza, può aumentare fino ad altri tre mesi il termine di cui sopra (art. 3 comma 2 legge 117/1988).

Quando l’omissione o il ritardo senza giustificato motivo concernono la libertà personale dell’imputato il termine di cui all’art. 3 comma 1 legge 117/1988 è ridotto a cinque giorni, improrogabili, a decorrere dal deposito dell’istanza o coincide con il giorno in cui si è verificata una situazione o è decorso un termine che rendano incompatibile la permanenza della misura restrittiva della libertà personale (art. 3 comma 3 legge 117/1988).

Gli artt. 2 e 3 legge 117/1988 introducono una forma particolare di responsabilità extracontrattuale[3], in cui si ha una parziale tipizzazione del fatto illecito.

Trattandosi di responsabilità extracontrattuale, si applicano la relativa disciplina per quanto riguarda il nesso causale, la nozione di danno ingiusto, l’onere della prova e la valutazione e liquidazione del danno.

Anche il concetto di dolo è il medesimo del codice civile e, quindi, il medesimo del codice penale.

Tuttavia, da un punto di vista pratico, in caso d’illecito doloso non si applicherà la legge 117/1988, perché un atto doloso del magistrato comporta, di fatto, la commissione di un reato e perciò l’applicazione delle nome ordinarie.

Tuttavia, la normativa potrebbe cambiare e, in ogni caso, sarebbe stato ben strano stabilire che lo Stato risponde per il fatto compiuto con colpa grave senza stabilire nulla per il caso di dolo.

I casi di colpa grave (cioè in cui vi è un grande scarto tra il comportamento atteso ed il comportamento tenuto) sono tassativamente stabiliti dalla legge, invece che affidati alla valutazione del giudice, come negli altri casi di responsabilità per colpa grave.

Le espressioni “libertà personale” di cui all’art. 2 comma 1 legge 117/1988 e “libertà della persona” di cui all’art. 2 comma 3 legge 117/1988 sono da intendersi equivalenti e si riferiscono alla libertà personale di cui all’art. 13 comma 1 Cost. cioè la libertà di autodeterminarsi nei movimenti.

L’espressione “emissione di provvedimenti” riguarda non solo i provvedimenti sfavorevoli, ma anche quelli favorevoli; non però la mancata emissione.

Il mancato impiego nell’art. 2 comma 3 lett. d) legge 117/1988 del termine “inescusabile”ha fatto pensare a taluno che in caso di emissione di provvedimenti concernenti la libertà personale si dovesse prescindere dall’elemento soggettivo.

Tuttavia, l’inquadramento nel concetto di colpa grave non esclude che si debba tenere conto non solo dello scarto oggettivo tra comportamento atteso e comportamento tenuto, ma anche della possibilità del magistrato di poter colmare tale scarto.

“Senza motivazione” si deve intendere come totale assenza di segno grafico o come motivazione apparente cioè presenza di segni grafici, ma che non spiegano le ragioni in fatto e diritto del provvedimento; non come motivazione insufficiente o contraddittoria o altrimenti viziata.

L’espressione “giustificato motivo” contenuta nell’art. 3 legge 117/1988 comporta che la responsabilità per diniego di giustizia sia colpevole e non oggettiva.

E’ però sufficiente la colpa lieve.

Non è detto che il diniego di giustizia sia necessariamente doloso sia perché l’istanza è depositata in cancelleria e non nelle mani del magistrato e perciò si può ben ipotizzare una negligenza nel controllo sia perché altrimenti non si vedrebbe perché introdurre la fattispecie del diniego di giustizia quando il magistrato è comunque responsabile per dolo.

Il diniego doloso è tuttavia coincidente con l’art. 328 c.p. o con altre fattispecie criminose.

L’istanza di messa in mora è elemento necessario per l’integrazione della fattispecie di diniego di giustizia e non un onere del soggetto che vuole agire in sede di responsabilità e perciò giova a chiunque sia danneggiato dal diniego di giustizia.

Il decreto motivato di proroga doloso esclude il diniego di giustizia, ma integra l’illecito doloso di cui all’art. 2 comma 1 legge 117/1988.

Se però il fatto illecito è commesso in violazione del diritto comunitario, allora lo Stato risponde anche in caso di colpa lieve (

Per l’azione di risarcimento del danno contro lo Stato, che deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri, è competente il tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello, da determinarsi a norma dell’art. 11 c.p.p. e dell’art. 1 delle norme di attuazione c.p.p. (art. 4 comma 1 legge 117/1988).

Lo spostamento della competenza, rispetto alle regole ordinarie, non si applica ai componenti della Corte Suprema di Cassazione e ai giudici amministrativi, contabili, militari e speciali, perché non appartenenti ad alcun distretto di corte d’appello.

Il tribunale giudica in composizione collegiale (art. 50bis comma 1 n. 7 c.p.c.).

L’azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari e, comunque, quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno; la domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro due anni che decorrono dal momento in cui l’azione è esperibile (art. 4 comma 2 legge 117/1988).

L’azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tale termine non si è concluso il grado del procedimento nell’ambito del quale il fatto stesso si è verificato (art. 4 comma 3 legge 117/1988).

In nessun caso il termine decorre nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio), non abbia avuto conoscenza del fatto (art. 117/1988).

Il tribunale, sentite le parti, delibera in camera di consiglio sull’ammissibilità della domanda di risarcimento del danno nei confronti dello Stato ex art. 2 legge 117/1988 (art. 5 legge 117/1988).

A tale fine il giudice istruttore, alla prima udienza, rimette le parti dinanzi al collegio che è tenuto a provvedere entro quaranta giorni dal provvedimento del giudice istruttore (art. 5 comma 2 legge 117/1988).

La domanda è inammissibile quando non sono stati rispettati i termini o i presupposti di cui agli artt. 2, 3 e 4 legge 117/1988 ovvero quando è manifestamente infondata (art. 5 comma 3 legge 117/1988).

L’inammissibilità è dichiarata con decreto motivato, impugnabile con i modi e le forme di cui all’art. 739 c.p.c., innanzi alla corte d’appello che pronuncia anch’essa in camera di consiglio con decreto motivato entro quaranta giorni dalla proposizione del reclamo; contro il decreto d’inammissibilità della corte d’appello può essere proposto ricorso per cassazione, che deve essere notificato all’altra parte entro trenta giorni dalla notificazione del decreto da effettuarsi senza indugio a cura della cancelleria e comunque non oltre dieci giorni; il ricorso è depositato nella cancelleria della stessa corte d’appello nei successivi dieci giorni e l’altra parte deve costituirsi nei dieci giorni successivi depositando memoria e fascicolo presso la cancelleria; la corte, dopo la costituzione delle parti o dopo la scadenza dei termini per il deposito, trasmette gli atti senza indugio e comunque non oltre dieci giorni alla corte di cassazione che decide entro sessanta giorni dal ricevimento degli atti stessi; la corte di cassazione, ove annulli il provvedimento di inammissibilità della corte d’appello, dichiara inammissibile la domanda; scaduto il quarantesimo giorno la parte può presentare, rispettivamente al tribunale o alla corte d’appello o, scaduto il sessantesimo giorno, alla corte di cassazione, secondo le rispettive competenze, l’istanza di cui all’art. 3 legge 117/1988 (art. 5 comma 4 legge 117/1988).

Il tribunale che dichiara ammissibile la domanda dispone la prosecuzione del recesso; la corte d’appello o la corte di cassazione che in sede di impugnazione dichiarano ammissibile la domanda rimettono per la prosecuzione gli atti ad altra sezione del tribunale e, ove, questa non sia costituita al tribunale che decide in composizione intermante diversa; nell’eventuale giudizio d’appello non possono far parte della corte i magistrati del collegio che ha pronunciato l’inammissibilità; se la domanda è dichiarata ammissibile, il tribunale ordina la trasmissione di copia degli atti ai titolari dell’azione disciplinare; per gli estranei che partecipano all’esercizio di funzioni giudiziarie la copia degli atti è trasmessa agli organi ai quali compete l’eventuale sospensione o revoca della loro nomina (art. 5 comma 5 legge 117/1988).

Il giudizio di ammissibilità previsto dall’art. 5 legge 117/1988 è un filtro volto ad evitare azioni temerarie e gli effetti indiretti delle stesse.

Il giudizio deve essere sommario e allo stato degli atti, altrimenti si trasformerebbe in una duplicazione del giudizio vero e proprio.

A questo proposito, la Corte costituzionale, che in un primo tempo aveva ritenuto costituzionale l’art. 274 c.c., che prevedeva un giudizio di ammissibilità in sede di azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale, è stato successivamente dichiarato incostituzionale con sentenza 50/2006 proprio perché si era trasformato in un duplicato del processo.

Il decreto che dichiara l’inammissibilità, essendo possibile presentare reclamo innanzi alla corte d’appello ricorso in cassazione, ha contenuto decisorio ed equivale a sentenza di rigetto, con attitudine al giudicato sull’inesistenza del diritto al risarcimento nei confronti dello Stato al momento della presentazione della domanda.

Tuttavia, la domanda potrà essere riproposta se il decreto era fondato sull’assenza delle condizioni di proponibilità al momento della domanda e queste siano successivamente sopravvenute.

Il magistrato il cui comportamento, atto o provvedimento rileva in giudizio non può essere chiamato in causa, ma può intervenire in ogni fase e grado del procedimento, ai sensi di quanto disposto dall’art. 105 comma 2 c.p.c. (intervento volontario adesivo autonomo); a tal fine, il presidente del tribunale deve dare al magistrato comunicazione del procedimento almeno quindici giorni prima della data fissata per l’udienza (art. 6 comma 1 legge 117/1988).

La decisione pronunciata nel giudizio nel giudizio promosso contro lo Stato non fa stato nel giudizio di rivalsa, se il magistrato non è intervenuto volontariamente in giudizio e, in ogni caso, nel procedimento disciplinare (art. 6 comma 2 legge 117/1988).

Il magistrato cui viene addebitato il provvedimento non può essere assunto come teste né nel giudizio di ammissibilità né nel giudizio contro lo Stato (art. 6 comma 3 legge 117/1988).

Le norme contenute nell’art. 6 legge 117/1988 pongono una barriera tra il cittadino asserito danneggiato ed il magistrato asserito danneggiante, escludendo l’intervento coatto sia ad istanza di parte sia iussu iudicis.

Lo Stato, entro un anno dal risarcimento avvenuto sulla base di titolo giudiziale o di titolo stragiudiziale stipulato dopo la dichiarazione di ammissibilità di cui all’art. 5 legge 117/1988, esercita l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato (art. 7 comma 1 legge 117/1988).

Si discute se il termine sia di prescrizione o di decadenza.

In nessun caso la transazione è opponibile al magistrato nel giudizio di rivalsa e nel giudizio disciplinare (art. 7 comma 2 legge 117/1988).

I giudici conciliatori e i giudici popolari rispondono soltanto in caso di dolo, mentre i cittadini estranei alla magistratura che concorrono a formare o formano organo giudiziari collegiali rispondono in caso di dolo, affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento e negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento (artt. 2 comma 3 lett. b) e c), e 7 comma 3 legge 117/1988).

Trattandosi di disciplina non speciale, ma eccezionale, ai vicepretori onorari e ai giudici di pace si applicano le normali regole in tema di responsabilità dei magistrati.

L’azione di rivalsa deve essere promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 8 comma 1 legge 117/1988).

L’azione di rivalsa deve essere proposta davanti al tribunale del capoluogo del distretto della corte d’appello da determinarsi a norma dell’art. 11 c.p.p. e dell’art. 1 norme di attuazione c.p.p. (come nel giudizio contro lo Stato di cui all’art. 4 legge 117/1988) (art. 8 comma 2 legge 117/1988).

La misura della rivalsa non può superare una somma pari al terzo di un’annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta, anche se dal fatto è derivato danno a più persone e queste hanno agito con differenti azioni di responsabilità, limite che non si applica al fatto commesso con dolo; l’esecuzione della rivalsa, se effettuata con mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore al quinto dello stipendio netto (art. 8 comma 3 legge 117/1988).

Le disposizioni dell’art. 8 comma 3 legge 117/1988 si applicano anche agli estranei che partecipano all’esercizio delle funzioni giudiziarie; per essi la misura della trattenuta della rivalsa è calcolata in rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale, ma se l’estraneo che partecipa all’esercizio delle funzioni giudiziarie percepisce uno stipendio annuo netto o reddito di lavoro autonomo netto inferiore allo stipendio iniziale del magistrato di tribunale, la misura della rivalsa è calcolata in rapporto a tale stipendio o reddito al tempo in cui l’azione di risarcimento è proposta (art. 8 comma 4 legge 117/1988).

La responsabilità disciplinata dagli artt. 7 ed 8 legge 117/1988 è una forma di responsabilità amministrativa, cioè di responsabilità di un pubblico funzionario per danno ingiusto cagionato allo Stato, in cui il danno è l’esborso della somma necessaria a rimborsare il danneggiato, la quale è una forma particolare di responsabilità extracontrattuale.

La responsabilità disciplinata dagli artt. 7 e 8 legge 117/1988 ha, come in generale la responsabilità amministrativa e la responsabilità extracontrattuale, sia natura risarcitoria sia sanzionatoria.

Tale ultima natura è condivisa con ogni forma di responsabilità per fatto illecito (penale, amministrativo, disciplinare, contrattuale, extracontrattuale, ecc. ecc.).

Il procuratore generale preso la corte di cassazione per i magistrati ordinari o il titolare dell’azione disciplinare negli altri casi, devono esercitare l’azione disciplinare nei confronti del magistrato per i fatti che hanno dato causa all’azione di risarcimento, salvo che non sia stata proposta, entro due mesi dalla comunicazione di cui all’art. 5 comma 5 legge 117/1988, ferma restando la facoltà del Ministro della giustizia di cui all’art. 107 comma 2 Cost. (art. 9 comma 1 legge 117/1988).

Gli atti del giudizio disciplinare possono essere acquisiti, su istanza di parte o d’ufficio, nel giudizio di rivalsa (art. 9 comma 2 legge 117/1988).

La disposizione di cui all’art. 2 legge 117/1988, che circoscrive la rilevanza della colpa ai casi di colpa grave ivi previsti, non si applica nel giudizio disciplinare (art. 9 comma 3 legge 117/1988).

Le disposizioni della legge 117/1988 non pregiudicano il diritto alla riparazione a favore delle vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione (artt. 314 e 315 c.p.p.).

Le norme specifiche sul patrocinio gratuito (ora patrocinio a spese dello Stato) sono state abrogate ed ora si applicano quelle generali di cui al D.P.R. 115/2002.

Il processo per l’accertamento della responsabilità dello Stato o del magistrato è esente da imposta di bollo e perciò da contributo unificato.

In conseguenza dell’applicabilità della legge 117/1988 anche ai componenti degli organi collegiali, con l’art. 16 della stessa legge decise di derogare alla tradizionale segretezza della camera di consiglio, volta a spersonalizzare le decisioni.

Così fu modificato l’art. 148 dell’allora vigente codice di procedura penale (il codice Rocco), stabilendo che dei procedimenti collegiali fosse compilato sommario processo verbale il quale doveva contenere la menzione dell’unanimità della decisione o del dissenso, succintamente motivato, che qualcuno dei componenti del collegio, da indicarsi nominativamente, avesse eventualmente espresso su ciascuna delle questioni decise, il quale, redatto dal meno anziano dei componenti togati del collegio e sottoscritto da tutti i componenti del collegio stesso, fosse conservato a cura del presidente in plico sigillato.

Le medesime norme erano ripetute nell’art. 125 comma 4 c.p.p (il codice Vassali destinato ad entrare in vigore nel 1989)  e nell’art. 131 comma 3 c.p.c. (comma introdotto dall’art. 16 comma 2 legge 117/1988) ed estese a tutti i giudici collegiali dall’art. 16 comma 3 legge 117/1988).

Tuttavia, la Corte costituzionale, con sentenza 18/1989 dichiarò l’incostituzionalità dell’art. 16 commi 1 e 2 legge 117/1988 nella parte in cui introducevano un obbligo di verbalizzazione, invece che una facoltà (con modifica dell’art. 125 comma 5 del codice Vassali, non ancora entrato in vigore, da parte del d.lgs. 351/1989, adottato in base ai poteri correttivi affidati al Governo in sede di legge delega per l’emanazione del codice di procedura penale).

Per cui, attualmente la verbalizzazione del dissenso si ha solo quando la richieda uno dei componenti del collegio.

Nei casi previsti dall’art. 3 legge 117/1988, il magistrato componente l’organo giudiziario collegiale risponde, altresì, in sede di rivalsa, quando il danno ingiusto, che ha dato luogo al risarcimento, è derivato dall’inosservanza di obblighi di sua specifica competenza (art. 16 comma 4 legge 117/1988).

Per cui il verbale salvaguarda dal dovere rispondere dell’atto o provvedimento del collegio, ma non dal dover rispondere del proprio comportamento, atto o provvedimento quale presidente del collegio, relatore od estensore dell’atto o provvedimento.

Il tribunale innanzi al quale è proposta l’azione di rivalsa ai sensi dell’art. 8 legge 117/1988) chiede la trasmissione dell’eventuale plico sigillato contenente la verbalizzazione della decisione alla quale si riferisce la dedotta responsabilità e ne ordina l’acquisizione agli atti del giudizio (art. 16 comma 5 legge 117/1988).

Con decreto del Ministro della giustizia (d.m. 16/4/1988) sono stati definiti i modelli dei verbali di cui all’art. 16 legge 117/1988 commi 1, 2 e 3 legge 117/1988 e determinate le modalità di conservazione dei plichi sigillati nonché della loro distruzione, decorsi i termini per l’esercizio dell’azione di responsabilità contro lo Stato (art. 16 comma 6 legge 117/1988).

L’opinione dissenziente è stata avvicinata alla dissenting opinion dei Paesi di common law.

Tuttavia, la dissenting opinion è pubblica e contraria alla spersonalizzazione della decisione, qui si tratta piuttosto di un voto segreto di scissura, che si spera resti, per l’appunto, segreto così che la decisione resti imputabile ad un giudice impersonale.

La legge 117/1988 è entrata in vigore il 16 aprile 1988 e non si applica ai fatti illeciti posti in essere dal magistrato, nei casi previsti dagli artt. 2 e 3 legge 117/1988, anteriormente alla sua entrata in vigore (art. 19 legge 117/1988).

Ebbene, la legge 117/1988 è stata approvata poiché con referendum erano stati abrogati gli artt. 55, 56 e 74 c.p.c che regolavano la responsabilità civile dei giudici e del pubblici ministeri.

Gli effetti dell’abrogazione erano stati rinviati di centoventi giorni dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del decreto che dichiarava gli effetti del referendum (D.P.R. 497/1987, pubblicato il 9 dicembre 1987).

Gli artt. 55, 56 e 74 c.p.c. sono, quindi, stati abrogati l’8 aprile 1988, otto giorni prima dell’entrata in vigore della legge 117/1988, con notevoli problemi di diritto intertemporale e differenti opinioni su quale disciplina applicare.

Chi scrive ritiene: che le disposizioni della legge 117/1988 siano irretroattive e nella parte sostanziale e nella parte processuale; che sul piano sostanziale ai fatti illeciti accaduti prima dell’8 aprile 1988 si applichino gli artt. 55 e 74 c.p.c. ed ai fatti accaduti dopo, ma prima dell’entrata in vigore della legge 117/1988, si applichino le norme allora vigenti in materia di responsabilità civile dello Stato e di responsabilità amministrativa; che sul piano processuale alle azioni iniziate prima dell’entrata in vigore della legge 117/1988 si applichi il principio tempus regit actum, mentre alle azioni iniziate dopo l’entrata in vigore della legge 117/1988 per fatti illeciti commessi prima si applichino le norme ordinarie sulla responsabilità civile dello Stato e la responsabilità amministrativa.

Parte seconda

“Un grande potere comporta una grande responsabilità” – Ben Parker

Il diritto processuale è un monumento alla sfiducia verso i giudici.

Tutto il diritto processuale è, infatti, fondato sulla sfiducia verso i giudici e i pubblici ministeri, cui pure si affida un gran potere.

Essi non vengono lasciati a decidere come procedere, ma devono rispettare procedure stabilite da norme minuziose.

Una buona parte di queste norme minuziose è poi dedicata alla correzione dei loro errori: non solo l’intero campo delle impugnazioni (appello, ricorso in cassazione revocazione, riesame, reclamo, ecc.), ma anche la correzione degli errori materiali.

Ciascun magistrato è quindi sorvegliato dai suoi colleghi, ma ciò è apparso insufficiente: il magistrato è così sorvegliato anche dal cancelliere.

E’ così scontata la fallibilità dei giudici che l’espressione “errore giudiziario” indica solo il caso in cui un innocente sia condannato con sentenza definitiva, ma vi sono anche errori in procedendo e in iudicando, come insegnano i commentatori delle norme che disciplinano il ricorso in cassazione.

Quali siano quelle regole che consentano di fare giustizia è però discusso: sotto il codice di procedura civile del 1865 ci si lamentava e venne il codice del 1940; adesso che c’è il codice del 1940 s’invoca il codice del 1865.

La procedura richiede il suo tempo: gli affari da trattare si accumulano; i processi si allungano, gl’imputati, le vittime e i testimoni muoiono.

Per ridurre il carico di lavoro s’introduce la prescrizione o la discrezionalità dell’azione penale.

Fidando nell’una o nell’altra, si commettono reati.

Il numero dei reati aumenta.

La fretta, cattiva consigliera, si fa avanti.

Il tempo dedicato all’esame delle questioni di fatto e di diritto diminuisce.

S’invocano soluzioni nette.

Perché distinguere tra incauto acquisto e ricettazione? Perché stare a guardare se l’imputato sapeva o meno che si trattava di un motorino rubato o se vi era motivo di pensare che fosse rubato?

Il motorino era rubato: per una condanna per ricettazione basta e avanza.

Se poi l’imputato s’inventa di avere commesso un furto che non ha commesso, che problema sarà mai?

Non che nel civile vada meglio.

La lunghezza dei processi porta il debitore a pensare di non pagare, fidando sul fatto che dovrà pagare interessi inferiori a quelli che dovrebbe pagare prendendo dei soldi a prestito da una banca o da una finanziaria.

Bisogna quindi fare il processo per accertare il debito e poi l’esecuzione.

Il debitore ha il tempo di nascondere i suoi beni o di sperperarli, per cui è necessario spendere molto tempo per cercarli, senza necessariamente trovarli.

Più i processi si allungano più viene voglia di non pagare; più non si paga e più i processi si allungano.

Entra in scena la fretta.

Si pretende di trattare più cause contemporaneamente: mentre il testimone parla, si firma un rinvio predisposto da altri.

Capita, così facendo, che non si capisca cosa dice il testimone e non si capisca a che giorno si è fissato il rinvio.

Si capirà poi: che non si è chiesta al testimone una precisazione, per cui non si è in grado di dire che l’attore ha torto o ragione, ma la domanda deve essere respinta perché non provata; che il rinvio è stato dato ad un giorno in cui giudice non ha udienza e perciò bisognerà fissarne un’altra.

Nel primo caso si proporrà appello, per cui la causa durerà il doppio; nel secondo, il testimone verrà in udienza, a vuoto, ma non gli sarà dato un certificato di presenza, per cui sarà licenziato, impugnerà il licenziamento ed andrà a gravare sul giudice del lavoro già oberato di lavoro, appunto.

Che gli errori grandi o piccoli che siano poi abbiano conseguenze enormi, data la delicatezza del fare giustizia, è poi notorio.

Del resto due detti ebraici recitano “chi salva un uomo, salva un intero universo” e “chi uccide un uomo, uccide un universo”: così fa il magistrato il cui errore comporta che l’imputato colpevole scampi alla condanna a morte oppure che quello innocente sia giustiziato.

Qualche esempio tra i molti.

Processo a Nostro Signore Gesù Cristo. La condanna e conseguente crocifissione di Nostro Signore sconvolge non solo questo mondo, ma anche quello ultraterreno.

Tale sommo errore è ricordato nelle aule di giustizia dal crocifisso.

Scrive Calamandrei:

“Non disdice all’austerità delle aule giudiziarie il Crocifisso: soltanto non vorrei che fosse collocato, come è, dietro le spalle dei giudici.

In questo modo può vederlo soltanto il giudicabile, il quale, guardando in faccia i giudici, vorrebbe aver fede nella loro giustizia; ma poi, scorgendo dietro a loro, sulla parete di fondo, il simbolo doloroso dell’errore giudiziario, è portato a credere che esso lo ammonisca a lasciare ogni speranza: simbolo non di fede, ma di disperazione. Quasi si direbbe che sia stato lasciato lì, dietro le spalle dei giudici, apposta per impedire che lo vedano: e invece si vorrebbe che fosse collocato proprio in faccia a loro, ben visibile nella parete di fronte, perché lo considerassero con umiltà mentre giudicano, e non dimenticassero mai che incombe su di loro il terribile pericolo di condannare un innocente.”[4]

Giudizio di Paride. La dea Discordia, per vendicarsi di non essere stata invitata ad un banchetto tra gli dei dell’Olimpo, getta tra essi una mela d’oro, con scritto “per la più bella”.

Si decide che la contesa insorta tra Giunone, Minerva e Venere sia decisa da Paride, figlio di Priamo, re di Troia (abbandonato per evitare la rovina della città).

Paride non guarda alla bellezza delle contendenti, ma quella dei doni che tutte gli promettono: decide che il più bello è la donna più bella del mondo ed assegna la mela d’oro a Venere che tale donna gli ha promesso.

Venere gli fa avere Elena, moglie di Menelao, re di Sparta: da qui la guerra di Troia con la distruzione della città, l’esilio di Enea e la fondazione di Roma, ma anche le vicissitudini di Ulisse, la morte di Agamennone, quella di Clitemnestra, il processo ad Oreste, Iliade, Odissea, Eneide e tante altre opere.

Si potrebbe obbiettare che l’episodio, non solo è mitologico e non fattuale, ma non è neanche un vero e proprio errore giudiziario: Venere era la più bella sicuramente.

Tuttavia, già il fatto che Paride si sia fatto corrompere è in ogni caso un errore e perciò la sentenza è lo stesso sbagliata.

Giuseppe e la moglie di Putifarre. Giuseppe, figlio di Giacobbe, è falsamente accusato dalla moglie di Putifarre, di avere tentato di violentarla, per essersi rifiutato di commettere adulterio con lei.

Imprigionato, è liberato da Dio.

Processo delle Arginuse. Gli Ateniesi, guidati da sei strateghi, avevano vinto la battaglia navale delle Arginuse.

Incaricati del recupero dei naufraghi furono Teramene e Trasibulo, che ne furono impediti dalla tempesta.

Ritornati ad Atene, i sei strateghi sono accusati da Teramene di essere colpevoli della morte dei naufraghi, perché avrebbero dovuto provvedere ai soccorsi subito dopo la fine della battaglia, soccorsi che, quindi, non sarebbero stati disturbati dalla tempesta.

I sei strateghi affermano che non è colpa di nessuno se i naufraghi sono morti.

L’assemblea sembra dar loro retta, ma si rinviano le votazioni per alzata di mano perché il buio della sera impediva le operazioni.

Prima della successiva riunione Teramene, assettato di potere più che di giustizia, ingaggia più persone perché si fingano parenti dei morti e chiedano la punizione degli strateghi.

Calisseno assume l’onere dell’accusa, mentre un tale sostiene di essere uno dei naufraghi (pochi) scampati alla morte, per riferire delle richieste dei morti di punire gli strateghi.

Viene proposto quindi di votare per l’innocenza o la colpevolezza degli strateghi come gruppo.

Eurittolemo si oppone, chiedendo che vi siano sei distinte votazioni: non solo ciò impone al legge, ma uno degli accusati è lui stesso un naufrago, che come tale non avrebbe potuto fare alcunché per salvare gli altri.

Licisco chiede che il giudizio si estenda ad Eurittolemo e a chi è d’accordo con lui.

I pritani si oppongono.

Di fronte al tumulto della folla, che vorrebbe processare anche loro, i pritani, acconsentono ad un’unica votazione sui sei strateghi: tranne uno, Socrate.

I sei strateghi sono condannati, ma più tardi gli Ateniesi si pentono del loro comportamento e processano Calisseno ed altri quattro che si sottraggono al giudizio.

Calisseno rientra dopo la caduta dei Trenta Tiranni: odiato da tutti, morirà di fame.

Processo a Socrate. Socrate, inviso agli ateniesi, accusato di corrompere i giovani e d’empietà, è condannato a morte, seppure innocente, ma rifiuta di fuggire per attaccamento alla patria ed alle sue leggi, affrontando la morte con coraggio.

In sua difesa, ricorda che egli è stato l’unico pritano ad opporsi all’illegalità durante il processo contro gli strateghi: ciò non gli basta.

Processo a santa Giovanna d’Arco. Santa Giovanna d’Arco, catturata dagli inglesi invasori della Francia, contro cui combatte, è sottoposta ad un processo per eresia, condannata da giudici in malafede e bruciata sul rogo.

Successivamente è riabilitata e canonizzata.

Processo a Galileo Galilei. Galileo Galilei è condannato per eresia, per avere sostenuto il sistema eliocentrico contro quello geocentrico (riconosciuto formalmente innocente sotto il pontificato di Giovanni Paolo II, vale a dire dopo la sua morte).

Le conseguenze sul rapporto tra fede e scienza sono note a tutti.

Processo agli untori. Durante la Peste del Manzoni, Guglielmo Piazza e Giancarlo Mora sono accusati d’essere due untori, propagatori della peste, e condannati a morte.

La casa di Giancarlo Mora è abbattuta e a pubblica esecrazione sull’area è elevata una colonna.

La vicenda è esaminata da Pietro Verri e da Alessandro Manzoni.

Nelle Osservazioni sulla tortura Pietro Verri si concentra sulla tortura e sulla falsa credenza negli untori come cause scatenati della condanna.

Nella Storia della colonna infame, invece, Alessandro Manzoni mette in rilievo la violazione delle regole di procedura, additando a causa principale dell’errore la volontà di trovare un colpevole ad ogni costo, così da violare le regole stesse della procedura, già peraltro sbagliate.

Finto complotto cattolico. Nel 1678, Titus Oates e Israel Tonge s’inventano un complotto di cattolici per uccidere Carlo II Stuart, re d’Inghilterra, Scozia ed Irlanda, in modo da fargli succedere suo fratello che è cattolico (il futuro Giacomo II), accusando centinaia di persone che essi sanno innocenti.

Tra coloro che sono giustiziati vi è sant’Oliver Plunkett, vescovo di Armagh e primate di tutta l’Irlanda.

Il Conte di Shaftesbury incaricato del suo caso, sapendo che in Irlanda non sarebbe mai condannato lo fa trasportare a Londra, dove il gran giurì ritiene che non vi siano elementi per un processo, ma il conte non si scoraggia e fa organizzare un processo farsa: così sant’Oliver Plunkett riceve l’11 luglio 1681 la corona del martirio.

Le accuse di Titus Oates furono poi scoperte calunniose.

Divenuto re, Giacomo II lo fece condannare al carcere a vita, ad essere esposto alla gogna una volta l’anno e alla perdita dell’abito clericale (del clero anglicano), ma nel 1688, quando Il Re fu deposto, i nuovi sovrani Guglielmo d’Orange e Maria graziarono Titus Oates e gli accordarono una pensione.

Processo Calas. Jean Calas, mercante ugonotto, trova impiccato il figlio Marc Antoine: un suicidio.

Per coprire lo scandalo, cerca di fare credere che si tratti di un omicidio: solo che è creduto essere lui l’omicida, per impedire al figlio di convertirsi al cattolicesimo.

Condannato alla ruota, è scagionato dopo morto, per opera della famiglia e di Voltaire che ne trae occasione per scrivere il suo Trattato sulla tolleranza.

Processo Sirven. Pierre-Paul Sirven è ingiustamente condannato per l’omicidio della figlia, che avrebbe ucciso per impedire che si convertisse al cattolicesimo.

Sirven è più fortunato di Calas perché Voltaire riesce a farne riconoscere l’innocenza mentre è ancora in vita.

Affare Dreyfus. Nel 1894, una lettera fatta a pezzi viene trafugata dalla spazzatura dell’ambasciata tedesca a Parigi: la lettera di un traditore che vende segreti alla Germania.

Il ministro della Guerra Auguste Mercier decide che trovare il traditore è l’ideale per riabilitarsi agli occhi della stampa ed ordina due inchieste: una amministrativa ed una giudiziaria.

A capo dell’inchiesta il comandante du Paty de Clam, grafologo dilettante, che si mette in testa che la lettera sia stata scritta dal capitano Alfred Dreyfus, alsaziano (allora l’Alsazia è sotto la Germania) ed ebreo, che peraltro è ricco e si è dimostrato sempre fervente patriota, attaccato alle Forze armate francesi di cui fa parte.

Du Paty de Clam è spalleggiato in questa sua convinzione da Alphonse Bertillon, fondatore dell’antropometria giudiziaria, che s’improvvisa perito grafico e che spiega le differenze tra la scrittura di Dreyfus e quella della lettera come un’alterazione deliberata.

Tuttavia, il materiale è così poco che du Paty de Clam cerca di spingere Dreyfus alla confessione o al suicidio, ma Dreyfus si proclama innocente e dichiara di volere vivere per provarlo.

E’ messo in una prigione militare, il cui direttore Forzinetti solidarizza con lui.

Intanto, mentre si ordina alla moglie di Dreyfus di tacere, pena la guerra europea, s’informa il giornale antisemita La Libre Parole che inizia una campagna di stampa contro Dreyfus.

Il 19 dicembre 1894 si apre il processo che continua a porte chiuse per evitare la guerra contro la Germania: eppure si permette al comandante Picquart ed al prefetto Lépine di presenziare ad alcune udienze.

L’avvocato della difesa Demange è convinto dell’assoluzione di Dreyfus, tale è la pochezza degli elementi a carico: non sa che ai giudici è stato fatto arrivare un fascicolo, a lui tenuto accuratamente nascosto, con asserite prove contro Dreyfus.

Nel fascicolo una lettera che ai giudici è comunicato riferirsi a Dreyfus (ma non vi è il nome, solo al lettera iniziale): i servizi segreti sanno però che non è vero e quindi l’affermazione è fatta con la consapevolezza di sostenere il falso.

Il 22 dicembre 1894 Alfred Dreyfus è condannato alla deportazione perpetua, nella Guaiana francese ed alla degradazione.

Molti si rammaricano che, poiché si tratta di un crimine politico non sia ammessa la pena di morte, pena che deve affrontare il soldato Breveri che ha lanciato il suo berretto contro un commissario di governo.

Tuttavia, Mathieu Dreyfus, fratello maggiore del capitano, è convinto della sua innocenza e ne convince il giornalista Bernard Lazare

Sono pochi a dar loro retta, ma quei pochi inducono l’esercito a cercare prove ulteriori per impedire la revisione e schiacciare Dreyfus.

Il problema per l’accusa è che l’uomo incaricato del’inchiesta, Georges Picquart, scopre che Dreyfus è innocente e che il colpevole è Ferdinand Walsin  Esterhazy, di antiche origine ungheresi, di dubbia condotta morale, pesantemente indebitato e che non ama né la Francia di cui è cittadino né l’esercito di cui fa parte.

Il problema per Picquart è che il suo sottoposto comandante Henry, che desidera il suo posto, è convinto che la condanna di Dreyfus debba essere difesa ad ogni costo e, perciò, falsifica un telegramma di Alessandro Panizzardi, consigliere militare presso l’ambasciata italiana a Parigi, in maniera sfavorevole a Dreyfus.

Mentre Picquart è trattato d’incompetente (senza che nessuno lo avverta del perché), Mathieu Dreyfus scopre per altre vie l’identità del traditore.

L’esercito decide che Dreyfus deve essere colpevole, per il suo onore: organizza perciò un processo farsa contro Esterhazy, onde valersi della sua assoluzione contro Dreyfus.

Scandalizzato da questa assoluzione, Emile Zola si scaglia contro i persecutori di Dreyfus nel suo famoso “J’accuse…!”.

Sono quindi Picquart e Zola ad essere condannati.

Un sostenitore della colpevolezza di Dreyfus porta però acqua al mulino della sua innocenza: il ministro della Difesa Godefroy Cavaignac, da un lato, svela l’esistenza del fascicolo segreto, dall’altro scopre che il telegramma di Panizzardi è falso (senza che ciò lo convinca dell’innocenza di Dreyfus).

Henry si suicida e si decide per un nuovo processo a Rennes, che si svolge in un clima violento, con la città in stato d’assedio e con dissensi tra gli avvocati della difesa, Demange (per la prudenza) e Labori (per l’attacco e che viene fatto oggetto d’un attentato).

Il 9 settembre 1899 Dreyfus è di nuovo condannato per tradimento, ma a dieci anni, per non meglio specificate circostanza attenuanti.

Il verdetto è scandaloso: secondo cinque dei sette giudici l’onore dell’esercito francese impone non la correzione dell’errore, ma la sua negazione, con attenuazione del sacrificio richiesto a Dreyfus (che è un militare, gli si potrebbe chiedere la vita per ala Patria, perché non dieci anni solo?).

Il capo del Governo Waldeck-Rousseau, per evitare lo strazio delle fazioni contrapposte convince Dreyfus a non chiedere la revisione e ad accettare la grazia (il che lo porrà in urto con Picquart ed altri): una legge di amnistia coprirà poi tutti quelli che sono intervenuti pro o contro Dreyfus.

Nel frattempo, infatti, la Francia si era spaccata, con famiglie divise, come mostrano le caricature dell’epoca, tra sostenitori e denigratori di Dreyfus.

Si deve però distinguere tra dreyfusards, dreyfusiens e dreyfusistes.

Dreyfusards sono i sostenitori dell’innocenza di Dreyfus.

Dreyfusiens quelli che ritengono si debba andare al di là della battaglia per il riconoscimento dell’innocenza di Dreyfus per rinnovare le strutture sociopolitiche francesi.

Dreyfusistes quelli che dopo il 1898, in seguito all’acutizzarsi dei contrasti, pur solidarizzando con Dreyfus, sostengono la necessità di una rappacificazione, anche senza piena giustizia per Dreyfus.

Alla categoria dei dreyfusiens appartengono i socialisti che, in primo momento rifutano di muoversi per Dreyfus perché è un borghese: l’affare Dreyfus è una contesa tra fazioni della borghesia e, quindi, il movimento operaio e contadino doveva disinteressarsene.

La posizione cambia quando i socialisti s’avvedono di quanto potrebbe essere utile la questione per fare avanzare la loro posizione.

Nel 1902, i dreyfusiens vincono le elezioni: l’inchiesta è riaperta ed il capitano Targe, che la conduce, scopre tutte le falsificazioni condotte contro Dreyfus.

Quindi, il 12 luglio 1906 la cassazione francese annulla il giudizio del Consiglio di guerra, senza rinvio, perché il processo a Dreyfus non avrebbe mai dovuto iniziarsi, in assenza di prova alcuna contro di lui.

Dreyfus è reintegrato nell’esercito, ma i cinque anni di deportazione non gli sono riconosciuti per la ricostruzione della sua carriera, bruciandogli definitivamente le speranze di una carriera brillante come quella che gli si prospettava prima dell’affare.

Nel 1907 si dimette dall’esercito.

Il 4 giugno 1908, in occasione del trasferimento delle spoglie di Emile Zola al Panthéon, il giornalista d’estrema destra Louis-Anthelme Grégori gli spara.

Si tratta di rifare il processo attraverso un nuovo e differente processo: per Grégori ed altri, l’errore giudiziario non è la condanna di Dreyfus, ma la sua assoluzione; Esterhazy mente ora che si professa colpevole ed era sincero quando diceva di essere innocente; le pressioni sui giudici sono state esercitate non per fare assolvere Esterhazy, ma per fare prosciogliere Dreyfus.

Grégori è assolto, ma la posizione di Dreyfus non ne è scalfita.

Dal punto di vista politico, l’affare Dreyfus porta, quindi, ad un’avanzata delle sinistre, in particolare dei radicali e di socialisti.

Per ironia della sorte, si tratta di forze ostili a quei valori di attaccamento alla Patria e alle forze armate professati da Dreyfus, tanto che, secondo la battuta di un suo professore di liceo, se non fosse stato per le sue vicende personali, Dreyfus sarebbe stato un antidreyfusardo.

Le forze di sinistra sono, inoltre, laiciste: professano un indifferentismo ostile alla Chiesa cattolica ed intendono metterlo in pratica.

La Chiesa cattolica in Francia è stata neutrale durante l’affare Dreyfus, non trattandosi di una questione che involgesse la morale o la fede: Dreyfus doveva essere assolto se innocente e condannato se colpevole; in dubio pro reo; i giudici doveva giudicare secondo coscienza, rispettando la procedura.

A titolo personale, molti cattolici sostengono la colpevolezza di Dreyfus: particolarmente virulento è il quotidiano La Croix, pubblicato dagli assunzionisti.

Altri cattolici sostengono però Dreyfus: per esempio, Paul Viollet, tra i fondatori della Ligue française pour la défense des droits de l’homme et du citoyen, di cui redige gli statuti, dimettendosi quando si accorge che è dominata dall’anticlericalismo.

Ciò nonostante, i laicisti attribuiscono l’affare Dreyfus ad un immaginario complotto clericale, pretesto per la persecuzione del 1905, fatta passare per separazione tra Stato e Chiesa.

La persecuzione aumenta la simpatia fra le fila cattoliche per movimenti d’estrema destra populista come l’Action française, il cui capo Charles Maurras, condannato nel 1945 come collaborazionista, grida “C’est la revanche de Dreyfus!”.

Un’altra conseguenza dell’affare Dreyfus è la nascita del sionismo.

Il giornalista ebreo Theodore Herlz aveva lasciato l’Austria-Ungheria per la Francia, perché riteneva che l’antisemitismo vi fosse un fenomeno quasi inesistente.

L’affare Dreyfus è uno choc: se si era battuto per l’immigrazione in Palestina degli ebrei dell’Europa centro-orientale, in conseguenza dei pogrom ivi diffusi, inizia a sostenere la necessità non solo dell’immigrazione, ma anche della costruzione di uno Stato per gli Ebrei.

La costruzione di uno Stato per gli Ebrei porta però allo scontro con gli Arabi, alle guerre arabo-israeliane, alla questione palestinese ed alle sue conseguenze.

L’affare Dreyfus porta poi all’emergere degli intellettuali (la parola nasce in questa occasione, in senso dispregiativo) e ad una maggiore importanza della stampa[5].

Adolph Beck. Adolph Beck, norvegese residente in Gran Bretagna, nel 1896 è condannato per avere commesso alcune truffe.

Nel 1904 sta per essere condannato una seconda volta quando si scopre che in tutti e due i casi è stato scambiato per tale Wilhelm Meyer, un medico austriaco in difficoltà finanziarie, il vero truffatore.

Tra i motivi della condanna, il fatto che egli fosse l’unico coi capelli grigi tra le persone fatte vedere ai testimoni in sede di riconoscimento.

George Edalji. Sempre all’inizio del XX secolo, George Edalji, un avvocato britannico figlio di un parsi e di una scozzese è ingiustamente condannato quale autore dei “Great Wyrley Outrages”, una serie di mutilazioni di cavalli.

Arthur Conan Doyle, già intervenuto in sostegno di Beck, dopo otto mesi d’investigazione riesce a provare l’innocenza di Edalji.

Tra i motivi della condanna, il razzismo.

I due casi precedenti portarono nel 1907 all’istituzione per l’Inghilterra ed il Galles della Court of Criminal Appeal che poteva giudicare sia in fatto sia in diritto, mentre la precedente Court for Crown Cases Reserved, istituita nel 1848, poteva giudicare solo in diritto e a sua discrezione.

Nel 1966 la Court of Criminal Appeal è sostituita dalla Criminal Division della Court of Appeal of England and Wales.

Purghe staliniane. Nel 1932 Stalin, per consolidare il suo potere decide di stroncare una forma d’opposizione non solo quella degli anticomunisti, ma anche quella degli altri comunisti, per quanto piccole possano essere le divergenze.

Migliaia di persone sono, quindi, accusate di cospirare contro il potere sovietico e contro lo Stato socialista: quasi tutte le accuse sono fatte senza prove della colpevolezza o nella piena consapevolezza di stare perseguitando degli innocenti.

Per fare credere che i complotti contro il socialismo sono veri si ricorre a minacce, percosse e promesse d’impunità quasi mai mantenute pur di fare confessare gli imputati.

Alcuni confessano però per devozione alla causa: il partito comunista deve essere percepito dalle masse come infallibile.

Particolarmente noti sono quattro processi, detti di Mosca: il processo dei sedici (contro Kamenev, Zinoviev ed altri quattordici); il processo dei diciassette (contro Radak ed altri sedici); il processo ai militari (che a differenza degli altri è tenuto segreto); il processo dei ventuno (tra cui Bukharin, che scrive a Stalin come gli sia insopportabile il pensiero che egli lo accusi credendolo veramente colpevole).

Nella repressione si distinguono il giudice Vasily Vasilievich Ulrikh ed il pubblico ministero Andrei Januaryevich Vyshinsky.

Ulrikh fa largo uso dei suoi poteri di direzione del processo, che spesso si svolge a porte chiuse e senza che le prove siano intermante mostrate all’imputato e privilegia la velocità sopra ogni altra considerazione con molti processi che durano quindici minuti: poiché le decisioni sono gia prese non vi è peraltro motivo di esaminare seriamente i fatti.

Nel 1948 Ulrikh condanna alla deportazione in Siberia taluni contadini invece che a morte: Stalin lo fa rimuovere da giudice e lo manda ad insegnare.

Vyshinsky si scaglia fortemente contro la presunzione d’innocenza.

La gran parte dei condannati è stata riconosciuta innocente o condannata senza prove, a partire dalla morte di Stalin fino a Gorbacev[6].

Processo Katzenberger. Lehmann Katzenberger, un commerciante ebreo nato il 28 novembre 1873, si vede frequentemente con Irene Scheffler Seiler, una fotografa tedesca, nata il 26 aprile 1910.

Pettegolezzi locali, secondo cui i due sono amanti portano il 18 marzo 1941 al suo arresto, come sospetto di avere violato le leggi razziali naziste (il reato era commesso dall’uomo e non dalla donna).

Katzenberger e la Seiler negano d’essere amanti.

Gli elementi a carico sono così flebili che il magistrato incaricato dell’inchiesta conclude che non un processo non è giustificato.

Tuttavia, Oswald Rothaug, giudice noto per la sua severità e fanatico nazista, si fa assegnare il caso, vedendovi un’ottima possibilità di fare carriera.

Non vi è prova che i due abbiano una relazione, che questa abbia avuto luogo dopo che avere rapporti sessuali tra ebrei ed ariani è diventato reato e neanche che sia durata dopo l’entrata in vigore del coprifuoco, in tempo di guerra.

Rothaug è però determinato a condannare a morte Katzenberger a priori (come dichiara al medico incaricato di visitare la Seiler) e, siccome un testimone dice di avere visto Katzenberger uscire dalla casa della Seiler sentenzia che l’imputato ha violato la legge che proibisce i rapporti extraconiugali tra ebrei ed ariani e che per commettere il reato ha violato il coprifuoco.

Così Katzenberger è ghigliottinato il 2 giugno 1942, mentre Irene Seiler deve scontare due anni di prigione per falsa testimonianza.

Il processo stronca le speranze di carriera di Rothaug: una condanna fondata su prove così scarse porta le autorità naziste a concludere che egli è inadatto a fare il giudice, così è trasferito ad altro incarico.

Dopo la seconda guerra mondiale è condannato, al processo di Norimberga contro i giudici, alla pena dell’ergastolo, ma è rilasciato nel 1956 e muore nel 1967.

Un bandito e suo cugino. “Una banda di rapinatori aveva assalito la casa di due vecchi proprietari e li aveva uccisi. Dodici giovani imputati erano stati portati in tribunale: tutti avevano un alibi fortissimo, meno uno. Messo a confronto con un teste, un cugino che diceva di odiarlo, riconosciuto, non avendo neppure accennato una risposta, benché non vi fosse nessuna prova contro di lui, questi era stato condannato. L’avvocato difensore, di fronte a quell’insano comportamento, era disperato. Il condannato sta due anni in carcere, poi scrive al Procuratore: ricorda, finalmente, dove si trovava il giorno della rapina: era andato a Macomer in treno, conservava il biglietto ferroviario, anzi era stato multato, aveva un testimone che lo poteva riconoscere, un prete che aveva viaggiato con lui. L’avvocato difensore, sia pur irritato contro lo stesso imputato, fa riaprire il processo: si constata che la multa, intestata al nome dell’imputato, corrisponde al giorno della rapina, il prete lo riconosce e viene assolto. In camera charitatis l’avvocato difensore ora chiede all’orgolese:<>. <>.”[7]

Secondo il codice barbaricino della vendetta, come ricostruito da Antonino Pigliaru, la falsa testimonianza non è offesa quando è prestata da chi esercita la professione di teste falso ovvero da chi dichiara il falso a favore dell’imputato indipendentemente dalla colpevolezza o non colpevolezza di quest’ultimo[8].

Questa regola deriva da una sfiducia nell’amministrazione della giustizia generata da una continua serie di violazioni dei diritti dell’imputato e della parte offesa, di voluti errori giudiziari.

I barbaricini rispondono negando la legittimità del processo e della pena amministrati fuori delle loro consuetudini: così è sempre bene mentire per evitare la prigione ad una persona, innocente o colpevole che sia.

Il teste falso di professione, poi, non ha spazio che nel processo “colto”, non in quello barbaricino, dove si risponde con la massima lealtà.

Naturalmente, la falsità delle testimonianze porta all’incremento d’assoluzioni di colpevoli e l’uso del processo come strumento di vendetta (quindi, della calunnia), porta a condanne ingiuste.

Alla situazione si risponde condannando gli imputati senza prove certe, con rafforzamento della sfiducia nella “giustizia del re” e l’instaurazione di un circolo vizioso.

Caso Tortora. Il 16 giugno 1983 alcuni amici del popolare presentatore televisivo Enzo Tortora lo informano che, secondo l’ANSA, egli è stato arrestato, ciò che è al momento errato.

Infatti, l’arresto avviene il giorno dopo, il 17 giugno 1983, con l’accusa di far parte della camorra, nel quadro di un imponente inchiesta anticamorra, viziata da numerosissimi errori, di metodo (tra cui molti casi dovuti all’avere scambiato una persona con un omonimo).

Sostenuto dal Partito radicale, è eletto al Parlamento europeo, ma è condannato a dieci anni di reclusione.

Non si arrende e la sua innocenza è riconosciuta prima dalla Corte di appello di Napoli e poi dalla Corte Suprema di Cassazione.

Dal caso Tortora parte una campagna per l’abrogazione degli artt. 55, 56 e 74 c.p.c., i quali regolano la responsabilità civile dei magistrati.

Secondo l’art. 55 c.p.c., il giudice è civilmente responsabile soltanto quando nell’esercizio delle sue funzioni è imputabile di dolo, frode o concussione oppure quando, senza giusto motivo, rifiuta, omette o ritarda di provvedere sulle domande o istanze delle parti e, in generale, di compiere un atto del suo ministero, il che deve ritenersi avverato solo quando la parte ha depositato in cancelleria istanza al giudice per ottenere il provvedimento o l’atto, e sono decorsi inutilmente dieci giorni dal deposito.

La domanda per la dichiarazione di responsabilità del giudice non può essere proposta senza l’autorizzazione del Ministro di grazia e giustizia (art. 56 comma 1 c.p.c.).

A richiesta della parte autorizzata la corte di cassazione con decreto emesso in camera di consiglio, designa il giudice che deve pronunciare sulla domanda (art. 56 comma 2 c.p.c.).

Le disposizioni degli artt. 55 e 56 non si applicano in caso di costituzione di parte civile nel processo penale o di azione civile in seguito a condanna penale (art. 56 comma 3 c.p.c.).

L’art. 74 c.p.c. dispone che le medesime norme si applichino ai pubblici ministeri.

L’opinione pacifica è che queste regole si applichino a tutti i giudici ed i pubblici ministeri, anche al di fuori del processo civile, per evitare un’ingiustificata disparità di trattamento.

Il Partito radicale chiede l’abrogazione con un referendum di tali norme con conseguente espansione della disciplina della responsabilità civile dell’impiegato pubblico.

Si sostiene che da un lato l’ampliamento della responsabilità civile del magistrato porterebbe ad una maggiore sua diligenza, per evitare di essere condannato al risarcimento dei danni, dall’altro, l’abolizione del regime di autorizzazione ministeriale farebbe cessare una fonte di disturbo alla sua indipendenza.

Gli argomenti convincono gli elettori che a grande maggioranza abrogano gli artt. 55, 56 e 74 c.p.c.

La maggioranza delle forze politiche, che ha sostenuto il referendum, ritiene però che la disciplina della responsabilità civile del pubblico dipendente non si confaccia al magistrato: se per garantire il pubblico impiegato da interferenze si è stabilito che risponda solo per dolo o colpa grave, a maggior ragione si deve tutelare l’indipendenza del magistrato.

Quindi, con D.P.R. 497/1987, l’abrogazione è rinviata di centoventi giorni, per permettere l’approvazione di una nuova legge, la 117/1988 esaminata nella prima parte.

 

Affare Outreau. Il caso Outreau è dominato dallo spettro del caso Dutroux: in Belgio, l’inefficienza della polizia e della magistratura hanno consentito a Marc Dutroux di commettere numerosi reati, tra cui rapimenti ed omicidi ai danni di ragazze minorenni.

Nel 2001, si apre un’istruttoria per fatti che sarebbero stati commessi ad Outreau, in Francia: un caso Dutroux alla francese.

Diciotto persone sono indagate e messe in custodia cautelare in carcere: una di esse si suicida, mentre gli altri restano in carcere per circa tre anni.

Al processo di fronte al Tribunale di Saint-Omer, i fatti si ridimensionano ed undici degli imputati sono prosciolti, mentre gli altri sei condannati.

I sei presentano appello, di fronte alla Corte d’assise di Parigi.

Esplode il bubbone: Myriam Badaoui, la principale accusatrice, dichiara di avere mentito; il suo ex marito conferma che ha mentito; il perito psicologo Jean-Luc Viaux dichiara che, essendo stato pagato come una collaboratrice domestica ha presentato una perizia da collaboratrice domestica.

I sei sono prosciolti ed è costituita una commissione parlamentare d’inchiesta per ricercare le cause della disfunzione della giustizia nell’affare Outreau e formulare proposte per evitare che si ripetano.

Anche la commissione è oggetto di polemiche: tra le critiche, il fatto che non si può propriamente parlare d’errore giudiziario, poiché la sentenza d’appello ha ristabilito la verità e che la commissione non si occupa dei attacchi politici alle garanzie degli imputati per abusi contro i minori.

Dalle risultanze della commissione derivano nuove norme in materia di responsabilità disciplinare dei magistrati e del loro obbligo di formazione continua.

Aneddoto personale. Chi scrive è avvocato ed è stato nominato difensore d’ufficio di un tale, in un procedimento per la revoca di alcuni benefici accordatigli in sede di esecuzione della pena.

Nel provvedimento si legge che l’udienza si sarebbe già dovuta tenere, ma che ci si è dimenticati di chiamarla, per mero errore.

Al giorno indicato, chi scrive non trova il giudice: la cancelleria gli comunica che vi è stato un palese errore perché di sabato il giudice non tiene udienza.

Ad oggi chi scrive non ha ancora ricevuto comunicazione della nuova data d’udienza.

Esempi letterari. L’errore giudiziario ha dato anche argomento, non solo alla saggistica, ma anche alla narrativa.

In questo campo, l’esempio più celebre rimane quello de Il Conte di Monte Cristo di Alexandre Dumas padre: alcuni calunniatori fanno condannare Edmond Dantes come cospiratore bonapartista a danno della dinastia dei Borboni, all’epoca della Restaurazione, ma lo sventurato evade, s’impadronisce di un tesoro e, fingendosi conte di Monte Cristo, si dedica alla vendetta, che finisce per lasciare anche a lui l’amaro in bocca.

Un altro esempio famoso è Testimone d’accusa di Agata Christie, un famoso racconto giallo, da cui è stato tratto anche un film.

Il protagonista del racconto è sospettato d’omicidio; la testimonianza della moglie (in realtà, della convivente) lo scagionerebbe, ma la devozione verso il proprio l’amante la renderebbe sospetta; la donna inizia però ad accusare l’imputato; alcune lettere, acquisite dalla difesa, la denunciano come calunniatrice, per poter scappare con un altro amante; la donna, posta di fronte alle lettere dichiara che, sì, l’imputato è rientrato all’ora che egli ha detto e perciò non può avere commesso l’omicidio; l’imputato è assolto e la difesa scopre che si è trattato di una trama della donna per ottenere l’assoluzione dell’uomo, che ella sa benissimo essere colpevole (nel racconto i due vivono felici e contenti; nel film la donna scopre che l’uomo vuole lasciarla e perciò lo uccide).

Anche nella vicenda di Harry Potter vi è un errore giudiziario: la condanna di Sirius Black, suo padrino , a cui carico vi sono tracce simulate da un traditore, per farlo credere colui che ha svelato a Voldemort il nascondiglio dei genitori di Harry Potter, uccisi appunto da Voldemort.

Nei vari volumi in cui sia articola la storia di Harry Potter, in verità, la giustizia è amministrata in maniera scandalosa: non meraviglia che le decisioni dell’autorità giudiziaria siano prive per Harry Potter ed i suoi amici di qualsiasi autorità morale.

Un altro esempio è Espiazione di Ian McEwan, un romanzo inglese da cui è stato tratto l’omonimo film di Joe Wright.

La tredicenne Briony Tallis si convince che lo spasimante della sorella abbia violentato la cugina.

Ne è così convinta che s’inventa di avere visto in volto il violentatore, riconoscendolo in Robbie Turner.

Per effetto di questa bugia, l’uomo è condannato e muore in guerra, senza aver potuto sposare l’amata.

Che fare? Quindi, preso atto che dagli errori dei magistrati, colpevoli o incolpevoli che siano derivano non solo perdite di tempo, ma anche morti, vite devastate da anni di prigionia, rovine economiche che colpiscono famiglie intere, dissensi politici acutissimi, il discredito dell’autorità giudiziaria, il dilagare della criminalità e chi più ne ha ne metta, si pone il problema: che fare?

Si badi: gli errori dei giudici e dei pubblici ministeri non sono completamente eliminabili. perché si tratta di essere umani.

Se ne può solo ridurre il numero.

Si noti che sono esseri umani anche gli arbitri ed i vendicatori: quindi,anch’essi possono sbagliare.

Alcuni propongono di abolire l’apparato coercitivo dello Stato ed affidarsi al controllo sociale informale e diffuso: ma anche allora vi sarebbero errori di giudizio si chi stigmatizzare come antisociale, perché il giudizio sarebbe in ogni caso affidato a degli esseri umani.

Si pensi solo ad un mezzo di controllo sociale come il pettegolezzo: quanti vene sono di pettegolezzi falsi!

Anche restando però nell’ambito della riforme del diritto processuale, le ricette si sprecano: basti pensare alle numerose proposte di riforma della procedura penale, civile, tributaria che sono state avanzate negli ultimi anni.

Anche per quanto riguarda la responsabilità civile del magistrato, sono state proposte diverse soluzioni.

Secondo alcuni, la responsabilità civile del magistrato o, almeno, quella del giudice, dovrebbe essere abolita per preservarne l’indipendenza e, quindi, impedire che il magistrato devi dal suo dovere per paura di ritorsioni.

Altri, invece, propongono di espandere la personale responsabilità del magistrato, sostenendo che il timore di dover risarcire il danno ingiusto cagionato con dolo o colpa spingerebbe il magistrato a maggiore diligenza.

Si tratta d’un’idea non sconosciuta alla responsabilità civile, la quale ha una valenza compensativa, ma anche una valenza sanzionatoria.

Dalla valenza sanzionatoria discendono le funzioni di prevenzione generale (la minaccia della sanzione distoglie la generalità dei consociati dall’illecito), prevenzione speciale (l’irrogazione concreta della sanzione spinge il singolo ad evitare in futuro l’illecito per evitare una nuova sanzione), sattisfattoria (perché il danneggiato è soddisfatto che sia stata fatta giustizia).

La valenza sanzionatoria della responsabilità civile era un tempo (vigente il codice civile del 1865) tenuta in grande considerazione e proprio per questo si tendeva ad escludere il più possibile la responsabilità oggettiva perché ripugnava una sanzione inflitta in assenza di colpevolezza.

Ancora nella relazione al Re del Guardasigilli sul codice civile del 1942, si giustificava la responsabilità dei padroni e committenti per il fatto dei domestici e commessi come presunzione di colpa in eligendo et vigilando e la limitazione del risarcimento del danno non patrimoniale ai soli casi determinati dalla legge, con l’argomento che solo in certi casi (per esempio, i reati) si giustifica una sanzione maggiore.

Successivamente, è stata messa più in luce la valenza compensatoria della responsabilità civile.

In quest’ottica, la responsabilità oggettiva nel campo della responsabilità civile non è più parsa così ripugnane e, anzi, si è andata espandendo, per esempio, la disciplina della responsabilità del produttore per prodotto difettoso è oggettiva.

Tuttavia, la valenza sanzionatoria della responsabilità civile non è stata del tutto abbandonata.

Per esempio, numerose cause risarcitorie intentate contro persone fisiche, laddove è responsabile anche un ente pubblico, un’impresa o altra entità molto più capiente, si giustificano perché permettono di colpire direttamente il danneggiante, che così non può sbarazzarsi della vicenda come di qualcosa di cui s’interessa l’assicurazione o l’ente.

Naturalmente, la soddisfazione non è necessariamente quella di chi vuole giustizia: può essere anche quella di chi vuole vendetta.

Un altro esempio è il dibattito sul danno da morte, il quale non si giustifica in un’ottica puramente compensatoria: il morto, in quanto tale, non ha alcun interesse al risarcimento ed i suoi eredi non hanno molto da lamentarsi del danno arrecato, perché senza di esso, non sarebbero eredi e non avrebbero i beni del defunto.

Il risarcimento del danno da morte si giustifica ampiamente sul piano sanzionatorio: più l’illecito è grave, più la sanzione deve essere alta; una più alta sanzione ispirerà maggiore diligenza e prudenza; alla peggio cercherà di limitare il danno una volta commesso l’illecito; gli eredi, poi, sono spesso persone legate al defunto ed avrebbero preferito che fosse vivo; in ogni caso, anche se l’erede non era affezionato al defunto, coloro che gli volevano bene sono soddisfatti che il colpevole sia punito, anche se se ne avvantaggia l’erede contento.

Altri studi, nella ricerca della limitazione della sanzione penale, mostrano come spesso il risarcimento del danno sia più gradito di una sanzione detentiva per il colpevole.

Ancora, tutta la riforma della responsabilità amministrativa, si fonda sulla sua valenza sanzionatoria, più che compensatoria.

Contemporaneamente al riemergere della natura sanzionatoria della responsabilità civile, prende sempre più piede l’idea che vadano ampliati i danni risarcibili e, quindi, i casi di risarcimento del danno non patrimoniale, con desidero opposto a quello del legislatore del 1942 che pensava di limitare i risarcimenti per non frenare lo sviluppo dell’iniziativa personale.

In questo quadro si colloca la richiesta di un’espansione della responsabilità personale diretta dei magistrati, richiesta in primo luogo da quelle forze che promossero il referendum del 1987 è che sono state assai deluse dalla legge 177/1988.

A questo riguardo è da notare che, contrariamente a quanto scritto da alcuni, la Corte di Giustizia non ha in alcun modo chiesto che i magistrati fossero personalmente responsabili per fatti illeciti commessi con colpa semplice: è lo Stato che deve essere responsabile per il fatto illecito del giudice commesso con colpa non grave.

Che il fatto illecito possa essere una sentenza passata in giudicato è conseguenza della diversità degli ordinamenti giuridici: da un lato il diritto internazionale, dall’altro il diritto interno.

Così un atto lecito e insindacabile per il diritto interno può essere un illecito internazionale.

Si pensi agli ordini militari in tempo di guerra: anche se l’ordinamento militare di uno Stato vincolasse il militare ad eseguire ogni ordine senza poterlo sindacare, ciò potrebbe essere causa di giustificazione solo davanti ai giudici di quello Stato, ma non davanti ad un tribunale nemico o internazionale.

E’, invece, l’Organizzazione delle Nazioni Unite con risoluzione del 29 novembre 1985 a chiedere che i giudici siano esenti da responsabilità civile, al fine di garantire l’indipendenza degli stessi: non si tratta però di un atto vincolante.

Ciò considerato, chi scrive ritiene che una legge che permetta di chiamare in giudizio direttamente i magistrati per illeciti civili commessi nell’esercizio delle loro funzioni non porterebbe né i vantaggi sperati in termini di prevenzione degli errori né porterebbe ai risultati temuti in termini di perdita dell’indipendenza del magistrato, ai causa dei limiti che una tale legge dovrebbe necessariamente avere.

In primo luogo, siccome i pubblici dipendenti sono responsabili solo in caso di dolo o colpa grave, per tutelare la loro indipendenza, così necessariamente i magistrati potrebbero essere chiamati a rispondere solo per dolo o colpa grave.

In secondo luogo, la valutazione delle prove e l’interpretazione delle norme, in cui consiste appunto il compito del magistrato, deve necessariamente essere esente da responsabilità, a pena di introdurre, di fatto, ulteriori gradi del processo, la cui moltiplicazione non è garanzia necessaria di correttezza della decisione.

C’è, invero, chi sostiene che, senza mettere in discussione il giudicato, che peraltro non è più così intangibile com’era in passato, si potrebbero ben chiamare dei giudici a sindacare l’operato degli altri giudici, trattandosi null’altro che di applicare l’art. 12 delle preleggi che impone, nell’applicazione delle leggi, di non attribuire ad esse altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore.

Si tratta di proposte che manifestano una concezione libresca del diritto, senza alcuna connessione con i suoi necessari meccanismi pratici di funzionamento.

Se tutto fosse così chiaro, lampante, a che pro tre gradi di giudizio, di cui uno di diritto?

Il fatto è che la giurisprudenza non è una scienza esatta, per cui, senza accedere all’opinione che non vi siano interpretazioni giuste o sbagliate, ma solo diverse, vi è quasi sempre un margine di opinabilità.

Ora accedere a queste mal fondate ipotesi significherebbe null’altro che l’aggiunta di tre gradi di giudizio, con assoluto ingolfamento degli uffici giudiziari, processi lunghissimi, conseguente aumento del tempo che passerebbe tra il momento dei fatti e quello dell’audizione dei testimoni (già lungo adesso), aumento degli errori, richiesta di riforme che comprimano i tempi del processo a costo di diminuire le garanzie dei convenuti ed imputati, perché bisogna arrivare a decisioni certe, quali che siano perché se c’è una cosa che le imprese aborrono sono i tempi morti delle verifiche di base.

La gran parte degli errori più gravi si annida però proprio in sede d’interpretazione di norme e valutazione di prove (vale a dire: lì dove si fa questione, perché si è nel campo dell’opinabile).

Inoltre, nulla cambierebbe per i fatti commessi con dolo.

Cambierebbe qualcosa per i fatti commessi con colpa grave.

I casi di dolo o colpa grave sono però una minoranza.

La maggior parte degli errori è dovuta a colpa non grave o in assenza di colpa.

Anzi, la quasi totalità degli errori è dovuta alla disfunzione del sistema: per esempio, buona parte dei casi d’erronea concessione della sospensione della pena sono dovuti al fatto che al giudice non sono comunicati i precedenti penali degl’imputati perché i vari uffici giudiziari non sono interconnessi; così molti contrasti tra sezioni di cassazione derivano dal mancanza di conoscenza delle decisioni delle altre sezioni.

Naturalmente, proprio per i vincoli necessari di cui sopra, una legge che introducesse la responsabilità diretta del magistrato in caso di dolo o colpa grave non potrebbe comprimere significativamente l’indipendenza del giudice.

L’aspetto più criticabile delle proposte di riforma è, quindi, l’assenza d’iniziative sul lato compensatorio: la responsabilità dello Stato per i danni, patrimoniali e non patrimoniali, cagionati con non colpa da un magistrato, quale che sia il grado di essa.

In verità, sarebbe meglio modificare l’art. 2059 c.c. introducendo la generale risarcibilità dei danni non patrimoniali, ponendo fine alla serie degli escamotage volti a non applicarlo.

Che fare. Molti hanno espresso ed esprimono le loro opinioni sui provvedimenti da adottare per diminuire il numero degli errori dei magistrati ed avere il maggior numero possibile di provvedimenti giusti.

Anche chi scrive si sente autorizzato ad esprimere la sua opinione sul punto.

Primo. I magistrati devono volere, in piena coscienza, esercitare con diligenza, prudenza e perizia il loro ufficio, nel pieno rispetto delle norme processuali.

I giudici devono volere assolvere gli innocenti e condannare i colpevoli, dare ragione a chi ha ragione e torto a chi ha torto.

Questa è una condizione a cui il diritto processuale per quanto ben scritto non può supplire e che è più importante di una buona procedura.

Non è detto che questa volontà debba derivare necessariamente da sete e fame di giustizia: ci si può accontentare che sorga dal timore di sanzioni penali, amministrative, civili o disciplinari o anche dall’insistenza delle parti come nella parabola della vedova insistente (Lc 18, 1-9).

Tuttavia, è imprescindibile.

Secondo. Il magistrato non deve lasciarsi prendere dalla fretta.

Nelle condizioni attuali dell’amministrazione della giustizia, specie in sede civile, si tratta di una tentazione assai forte.

Tuttavia, maggior fretta minore atto.

Se ancora nelle aule penali c’è un certo ordine, nelle aule civili, almeno di grandi città come Roma, è frequente lo spettacolo di fascicoli ammucchiati da una parte su cui si gettano gli avvocati per risultare primi nella trattazione della causa (spettacolo che convince molti praticanti avvocati, freschi di laurea, ad abbandonare la pratica forense per altri sbocchi).

Il giudice, nell’assenza di cancellieri ed ufficiali giudiziari, fa verbalizzare agli avvocati, ai quali delega la testimonianza, che quindi si svolge senza che il giudice possa chiedere chiarimenti o prendere contezza delle titubanze del teste.

Mentre il giudice tiene un’udienza, sentendo gli argomenti dei difensori, s’interrompe per concedere un rinvio o per trattenere una causa in decisione, inevitabilmente distraendosi.

Nonostante sia previsto che le udienze istruttorie in sede civile non siano pubbliche, esse lo sono di fatto, perché si permette alle parti di prendere il fascicolo, verbalizzare ed aspettare nell’aula d’udienza.

In alcuni casi, vi sono addirittura due o più giudici per stanza.

Se, de iure condendo, si potrebbe rendere pubblica l’istruttoria civile, nulla ha a che fare la prassi attuale civile con la maniera di condurre l’istruttoria dibattimentale in sede penale.

E’ perfettamente ovvio che in questo marasma vi sia notevole spazio per errori di vario genere, nella valutazione delle prove oppure materiali o anche nell’interpretazione della norme, errori che, tra impugnazioni e correzioni errori materiali portano via più tempo di quello che si risparmia svolgendo più udienze contemporaneamente.

Un esempio di come la fretta sia cattiva consigliera è l’assorbimento dei motivi praticato dal giudice amministrativo: invece di statuire su tutti i motivi d’impugnazione, il giudice annulla l’atto accogliendo il ricorso per uno di essi.

L’amministrazione può però adottare un nuovo provvedimento dal contenuto identico, basandosi sui motivi assorbiti, su cui non si è fondato il giudicato e che perciò possono essere ritenuti sufficienti a fondare una decisione identica a quella annullata.

Ovviamente, se si chiede l’annullamento del nuovo atto si dovrà instaurare un nuovo giudizio che prenderà più tempo di quello risparmiato con la scelta di non statuire su tutti i motivi.

Quindi, i magistrati non devono lasciarsi prendere dalla fretta.

Del resto con procedimenti civili che durano quasi un anno di fronte al giudice di pace e più di due di fronte al tribunale e alla corte di appello, lasciarsi prendere dalla fretta è perfettamente inutile, specie considerando che la notevole durata dei processo in Italia è sempre stata giustificata con una maggiore attenzione er la giustizia della decisione: avere la lentezza e l’errore contemporaneamente sarebbe il colmo.

Fermo restando che il tempo necessario a svolgere con attenzione l’attività giudiziaria sarebbe, ad avviso di chi scrive, in parte recuperato con la diminuzione del tempo da dedicare ad impugnazioni e correzioni di errori materiali, altre devono essere le soluzioni per velocizzare i processi.

Per esempio, dovrebbero essere riempiti i vuoti di organico dei magistrati.

Si badi: il numero dei magistrati sulla carta è molto alto e non abbisogna di aumenti; l’aumento deve essere del numero effettivo di magistrati, colmando i vuoti di organico.

Invece, deve essere aumentato anche oltre l’attuale organico il numero degli amministrativi, che dovrebbero essere, secondo studi di scienza dell’amministrazione, due o tre per ogni magistrato.

Invece, questa proporzione è del tutto trascurata.

Anzi, si dà per scontata l’assenza del cancelliere e dell’ufficiale giudiziario nella quasi totalità delle udienze civili, con supplenza da parte degli avvocati e dei giudici e conseguente perdita di tempo.

In alcuni casi (per esempio, le sezioni penali del Giudice di Pace di Roma), anche in sede penale mancano gli ufficiali giudiziari.

Un’altra fonte di ritardo è la mancata registrazione sonora delle udienze, che permette di ridurre ai minimi termini la verbalizzazione manuale, con conseguente risparmio di tempo.

In questo caso, la registrazione sonora delle udienze permette non solo di risparmiare tempo, ma permette al giudice di poter valutare meglio le dichiarazioni dei testi e degli imputati, con evidente diminuzione della possibilità di errori.

La registrazione sonora dovrebbe essere, in realtà, assicurata non solo durante le udienze penali (cosa che non avviene sempre), ma anche durante le udienze civili, almeno delle deposizioni di testi e delle audizioni delle parti o di consulenti, come peraltro permette l’art. 422 c.p.c. (rimasto sulla carta).

Sul piano compensatorio, dovrebbero essere stabiliti per legge dei termini oltre i quali la durata del processo non è ragionevole, con una somma predefinita per ogni giorno d’eccedenza, il che eliminerebbe o almeno ridurrebbe il contenzioso in sede di risarcimento del danno da eccessiva durata del processo.

Dovrebbe essere riformata la disciplina della responsabilità aggravata, stabilendo che la parte che abbia agito o resistito con dolo o colpa grave perda il diritto al risarcimento del danno da eccessiva durata del processo e debba versare alla controparte una somma per ogni giorno di durata del processo entro il termine ragionevole pari a quella fissata per il risarcimento del danno da eccessiva durata del processo.

Terzo. Deve essere introdotto l’istituto della revisione della sentenza, quale straordinario mezzo d’impugnazione, da esperire nei casi in cui una pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo abbia dichiarato l’iniquità di un processo celebrato in Italia per violazione dell’art. 6 paragrafo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (qui, vi è una richiesta in tal senso da parte degli Stati membri del Consiglio d’Europa).

Quarto. I giudici devono essere messi in condizione di conoscere i casellari giudiziali aggiornati di tutta l’Italia cosa che non sempre avviene, in modo da evitare di concedere la sospensione della pena in assenza di presupposti o di non applicare la disciplina della recidiva oppure di concedere attenuanti generiche che altrimenti non sarebbero state concesse.

Quinto. La Cassazione deve essere organizzata in maniera tale che i vari giudici possano avere pronta cognizione delle decisioni degli altri giudici onde poter deferire la questione alle sezioni unite, in caso di contrasto.

Sesto. I magistrati nella loro attività necessitano dell’aiuto di molte persone: amministrativi, avvocati, testimoni, periti e delle parti stesse.

Per evitare che sbaglino è importante non solo che essi non vogliano sbagliare, ma anche che coloro che entrano in contatto con loro non li vogliano far sbagliare.

Se i testi mentono, le parti agiscono in malafede, le consulenze e i patrocini sono infedeli, non ci si può ragionevolmente aspettare che i magistrati non commettano errori, incolpevoli certo, ma errori.

Se non si può prescindere dalla volontà dei magistrati di fare il loro dovere, non si può neanche prescindere dalla volontà della collettività di avere un processo efficiente.

A parte gli amministrativi, tra i primi che devono aiutare i giudici ci sono gli avvocati, secondo i noti brocardi “l’avvocato è quello che deve fare capire le cose a quello scemo del giudice” e “se il giudice non capisce la colpa è dell’avvocato”.

Agli avvocati devono essere equiparati tutti coloro che esercitano il patrocinio di fronte all’autorità giudiziaria (per esempio, i praticanti avvocati e le varie figure professionali che possono difendere le parti di fronte al giudice tributario).

Vengono poi i testimoni ed i periti, vale a dire quelle persone che devono aiutare il giudice a ricostruire i fatti.

Sarebbe poi importante che le parti si comportassero con lealtà, come il nostro codice di procedura civile richiede.

E’ vero che da questo lato non ci può aspettare molto.

Ciò non toglie che le parti in sede d’interrogatorio formale o libero non mentissero, l’amministrazione della giustizia ne guadagnerebbe molto.

Così l’improbabilità che gl’imputati espongano sinceramente i fatti, come se fossero dei testimoni, non toglie che l’amministrazione della giustizia ne guadagnerebbe molto.

Il punto è però proprio questo: se si vuole che l’amministrazione della giustizia funzioni è necessario innanzi tutto volere che funzioni.

E’ proprio perché non ci può fidare che le parti facciano prevalere il desiderio di avere una decisione giusta su quello di avere una decisione favorevole che è stato istituito l’ufficio del pubblico ministero.

Anche i pubblici ministeri necessitano d’aiuto.

Fornire tale aiuto è ufficio della polizia giudiziaria.

Tuttavia, se le opere poliziesche ci forniscono un’immagine di zelo e professionalità nelle indagini (salvo qualche eccezione), la realtà non raggiunge questo livello.

Non ci si riferisce all’obliterazione da parte degli autori dell’umana fallibilità degli investigatori né alla magnificazione di ritrovati scientifici per amore di spettacolo.

Il problema è che molto spesso la diligenza nelle indagini non c’è proprio.

A parte i casi in cui le indagini non si fanno perché manca la speranza di trovare i colpevoli e, quindi, si tratta di distribuire risorse scarse, vi sono casi in cui le indagini sono superficiali, distratte: allora non si ha un risparmio di risorse, ma uno spreco.

In conclusione, noterà il lettore che questo scritto che inizia trattando della responsabilità dei magistrati, finisce trattando della responsabilità di tutti (che è responsabilità di ciascuno, non responsabilità di nessuno).

Se però la responsabilità dei magistrati serve non per farla pagare a qualcuno, ma per prevenire gli errori, allora il punto centrale è la prevenzione degli errori.

La prevenzione degli errori richiede però per la sua massima efficienza che vi sia l’impegno in questo senso non solo dei magistrati, ma anche della collettività intera.

Come la guerra è troppo importante per lasciarla ai generali, così l’amministrazione della giustizia è troppo importante per lasciarla ai magistrati.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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GIURISPRUDENZA

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Corte costituzionale, ordinanza 6 luglio 2006, n. 273

Corte suprema di cassazione, sezione I civile, sentenza 30 luglio 1999, n. 8260

Corte suprema di cassazione, sezione I civile, sentenza 25 gennaio 2002, n. 871

Corte suprema di cassazione, sezione III civile, sentenza 19 gennaio 2007, n. 1183

Corte suprema di cassazione, sezioni unite civili; sentenza 18 ottobre 2005, n. 20119

Corte suprema di cassazione, sezione I penale, sentenza 22 settembre 2005

Corte suprema di cassazione, sezione I penale, sentenza 12 luglio 2006

Corte suprema di cassazione, sezione I penale, sentenza 1 dicembre 2006

Corte suprema di cassazione, sezione V penale, sentenza 15 novembre 2006

 

 


[1] Le commissioni d’inchiesta e d’indagine, anche quando hanno i poteri dell’autorità giudiziaria, non sono giudici speciali, perché non devono né risolvere controversie né attribuire responsabilità diverse da quella politica.

[2] Secondo alcuni, la volontaria giurisdizione sarebbe attività amministrativa, affidata all’autorità giudiziaria perché si è ritenuto di sottrarla all’indirizzo politico (la stessa esigenza che ha portato all’istituzione delle autorità amministrative indipendenti, che alcuni considerano perciò un giudice speciale).

Altri la ritengono attività giurisdizionale, distinta da quella contenziosa, ma pur sempre tale.

Chi scrive ritiene che la volontaria giurisdizione sia attività giudiziaria non per una sua intrinseca natura, ma perché così ha voluto il legislatore: non imperio rationis, sed ratione imperii.

Molti provvedimenti della pubblica amministrazione sono, del resto, vincolati e perciò sottratti all’indirizzo politico.

Anzi, alla pubblica amministrazione sono affidate funzioni giustiziali (in sede di ricorso).

In verità, la divisione tra attività amministrativa ed attività giudiziaria non è netta, trattandosi in ambedue i casi d’applicazione della legge, ma dipende da variabili storiche.

Del resto, anche l’attività del pubblico ministero (che non è giurisdizionale) è giudiziaria e non amministrativa non per ragioni intrinseche, ma per motivi storici.

[3] Ma secondo alcuni la responsabilità è contrattuale.

[4] Calamandrei, Piero, Elogio dei giudici scritto da un avvocato, quarta edizione, Milano, Ponte alle Grazie, 1989, pag. 319. Chi scrive ritiene che anche le scritte “la legge è uguale per tutti” e “la giustizia è amministrata in nome del popolo italiano” debbano essere collocate in modo che il giudice le abbia di fronte a sé.

[5] Per i dettagli si rinvia alle singole voci della categoria Affaire Dreyfus nella versione francese di Wikipedia e alla bibliografia.

[6] Per un elenco parziale di discolpati si vedano le voci della categoria Exonerated Soviet death sentences nella versione inglese di Wikipedia.

[7] Cagnetta, Franco, “Inchiesta su Orgosolo”, Nuovi Argomenti, n. 10, settembre ottobre 1954, pag. 178.

[8] Per il commento si rinvia a Pigliaru, Antonino, Il banditismo in Sardegna. La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico, Milano, Giuffrè, 1975, pagg. 229 – 239.