Elaborato dr. Luca Vittorio RAIOLA – Convegno 2007

INTRODUZIONE

 

 

Questo lavoro si compone di due parti. Nella prima si analizza, sinteticamente, la legge n.117/88 sulla responsabilità civile dei magistrati, soffermandosi soprattutto sui riscontri giurisprudenziali di detta legge.

Nella seconda, invece, si indagherà sul rapporto tra opinione pubblica e sostanziale irresponsabilità dei magistrati. Come è agevole comprendere la prima parte può essere saltata a piè pari da chi legge e sostituita dal brano di Raffaele Costa[1] riportato di seguito:

 

Un mistero:chi giudica i giudici? La legge n.117 del 13 aprile ’88 è titolata Risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati. Peccato che sia un refuso; perché, in realtà, entrando nel merito della normativa, il titolo avrebbe dovuto parlare semmai di “irresponsabilità”dei magistrati. In effetti, la legge prevede che “chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave” possa decidere di rivalersi; ma non sul magistrato: gli è semplicemente concessa la possibilità di “agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali”.

Chi si ritiene, a torto o a ragione, vittima d’ingiustizia, può dunque adire le vie giudiziarie per ottenere riparazione ai danni subiti. Ma l’azione legale deve indirizzarsi “nei confronti del presidente del Consiglio dei ministri” e soltanto in un secondo momento lo Stato, nel caso sia stata acclarata l’esistenza di dolo o colpa grave da parte di un magistrato, può decidere eventualmente di rivalersi su quest’ultimo…

Anche nell’eventualità che lo Stato decida di rivalersi sul magistrato, “la misura di rivalsa” non potrà “superare una somma pari al terzo di un’annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato”: ciò neppure in presenza di colpa grave determinata da “negligenza inescusabile”.

Ecco perché, tutto sommato, i magistrati continuano sotto questo profilo a dormire tranquilli, protetti come sono da una situazione legislativa particolarmente privilegiata. Non che le posizioni della magistratura non abbiano un qualche fondamento: è senza dubbio giustificata l’esigenza di tutelare l’indipendenza dei magistrati, sì da non esporli ad intimidazioni di sorta da parte degli imputati. Ma stabilire che chi incorre in errori gravemente colposi, o addirittura in episodi di dolo, debba essere responsabile in sede civile del proprio operato, parrebbe una misura sacrosanta anche per una categoria molto particolare come la magistratura. Così è già, d’altronde, per tutti i cittadini comuni, ma anche per professionisti che svolgono lavori particolarmente delicati, come i medici”.

 

Certo, in un periodo in cui è forte il processo mediatico contro la “Casta” dei politici, la necessità di indagare sulle tante altre caste che ci sono nel nostro paese è quanto mai necessaria. Raffaele Costa, nel suo libro, elenca puntualmente tutti i privilegi che sono ancora presenti in Italia a tutti i livelli, e che lasciano veramente sgomenti. Una cosa però va precisata da subito. Così come la critica dei privilegi, alcuni effettivamente obsoleti e odiosi, dei politici non dovrebbe diventare una critica alla Politica in sé, al Parlamento e al Governo in quanto tali, con il rischio di pericolose derive autoritarie, così una riflessione sull’”irresponsabilità civile”dei magistrati non deve divenire una critica indiscriminata contro la Magistratura e contro i magistrati. Sarebbe troppo facile accusare i magistrati della condizione in cui versa la giustizia italiana. Anzi. Spesso i magistrati sono costretti a lavorare in situazioni a dir poco indecorose, in strutture fatiscenti e sono costretti ad applicare leggi kafkiane. Si ha l’impressione che la giustizia in Italia sia programmata per non funzionare, un ingranaggio che gira a vuoto, che costa moltissimo e produce pochissimo.[2] Insomma, il discorso sul degrado della giustizia è complesso e ci sono responsabilità a più livelli. Non bisogna commettere il marchiano errore di scaricare tutte le responsabilità sui magistrati. Ciò detto, però, una riflessione sull’irresponsabilità civile dei giudici è opportuna e necessaria, specialmente in un periodo in cui c’è una forte istanza di cambiamento e di superamento dei privilegi. Di tutte le caste.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PARTE PRIMA

 

LA RESPONSABILITà CIVILE DEI MAGISTRATI

 

 

 

Negli ultimi anni il problema della responsabilità dei magistrati ha suscitato un notevole interesse in una larga parte dell’opinione pubblica soprattutto perché dalla sua risoluzione si è fatto dipendere il corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia quasi che una legge sulla responsabilità civile dei magistrati costituisse il necessario rimedio alle gravi disfunzioni della giustizia italiana. In realtà, come si avrà modo di argomentare, il problema è molto più complesso di quanto possa sembrare, ed al centro di interessi discordanti, causa di incessanti scontri politici tra la magistratura compatta come non mai nella difesa dei propri “privilegi”; la classe politica, o larga parte di essa, che per ragioni non sempre di garantismo e di difesa dei cittadini, ma per propri interessi non sempre confessati o confessabili, vuole contenere il potere giudiziario; ed infine i cittadini che chiedono una giustizia degna di questo nome.

I magistrati rispondono degli atti compiuti in violazione di diritti? Questa è una domanda fondamentale, in quanto è centrale il ruolo che svolge il giudice nel sistema di protezione dei diritti; se il giudice fosse lasciato esente da responsabilità per i suoi atti, la tutela dei diritti verrebbe fortemente sminuita.

L’art. 55 cod. proc. civ. limitava la responsabilità civile del giudice (e del pubblico ministero: art.74) ai soli casi di dolo, frode e concussione, nonché diniego di giustizia. Questa limitazione della responsabilità è stata molto criticata, soprattutto dopo che la Corte costituzionale (sent. 2/1968)[3] ha esteso anche agli atti compiuti dai magistrati la responsabilità solidale dello Stato, stemperando la previsione di una responsabilità diretta del giudice. Fu un referendum ad abrogare la disciplina del codice, nel 1987, a seguito del quale venne la legge 117/1988. Ma questa legge limita la responsabilità per danno ingiusto provocato da comportamenti degli organi giudiziari al dolo e alla colpa grave, prevedendo che l’azione di risarcimento venga proposta contro lo Stato, non contro il singolo magistrato (contro cui lo Stato potrà rivalersi): salvo il caso in cui il comportamento non costituisca reato, perché allora si agirà penalmente contro il giudice (e civilmente contro lo Stato). Naturalmente questa legge non può non essere al centro di molte contestazioni, essendo accusata di aver “tradito”il referendum ripristinando una disciplina “garantista”solo nei confronti dei magistrati.

Ma in che cosa consiste la responsabilità civile?

In termini ampi e generici la responsabilità civile può essere individuata nella violazione di un obbligo di diritto privato imputabile ad un soggetto e produttiva di danno le cui conseguenze sono trasferite da chi le ha subite ad un soggetto diverso.

La responsabilità civile viene allora a consistere in una particolare tecnica di tutela civile volta a sottoporre il soggetto responsabile alla reazione giuridica prevista dall’ordinamento. Nell’ambito di un concetto così lato occorre distinguere la responsabilità extracontrattuale o responsabilità civile in senso stretto dalla responsabilità contrattuale che scaturisce dalla mancata soddisfazione dell’interesse dedotto in una obbligazione ovverosia da un inadempimento di un rapporto particolare.

Queste due figure presentano spesso numerosi punti di contatto che in alcune zone di confine possono portare ad una loro confusione e ad esiti incerti.

Bisogna tuttavia evitare di estendere la sfera delle obbligazioni contrattuali a quegli obblighi generici ben frequenti in una società evoluta imposti a tutela di interessi che possono essere lesi nella vita di relazione. È proprio sulla lesione di tali doveri che infatti si fonda la responsabilità extracontrattuale disciplinata dagli artt. 2043-2051 del codice civile.

Da tutto ciò discende, evidentemente, che la figura della responsabilità del giudice va inquadrata certamente nell’ambito della responsabilità extracontrattuale anche se presenta, così come prevista dalla legge 117/88 numerose differenze da tale modello che non è qui il caso di approfondire.

Fatta questa premessa, bisogna adesso svolgere una veloce analisi della legge in questione, soffermandosi soprattutto sulla giurisprudenza, per vedere, in concreto, come la legge viene attuata.

L’art. 2,primo comma della legge 117/88 recita:”Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.”

Si specifica però nel comma successivo che:”Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove”.

Come si vede, la responsabilità civile del magistrato, in primo luogo è ristretta solo ad alcune ipotesi tassativamente determinate,e, in secondo luogo è mediata dalla chiamata in giudizio dello Stato. Ciò suscita non poche perplessità.

Mario Cicala, nel suo scritto “Rassegna di giurisprudenza sulla responsabilità civile dei magistrati”, è stato molto critico e ha scritto:”(…) Tale responsabilità è stata voluta, ed ottenuta facendo leva sul voto referendario dei giorni 8 e 9 novembre 1987, non tanto allo scopo di assicurare un qualche ristoro ai danneggiati, che sarebbero stati assai meglio garantiti dalla responsabilità civile dello Stato[4], regolata dai comuni principi civilistici, ma al fine di porre in essere uno strumento para-disciplinare per il controllo della Magistratura.

Si è voluto far ricorso ad uno strumento che ha dato buoni frutti in altri settori dell’ordinamento: cioè all’utilizzazione della spinta sociale costituita dai “privati egoismi”dei danneggiati incanalandoli per conseguire un pubblico interesse, tanto da offrire –già nel 1988- il patrocinio a spese dello Stato ai non abbienti. In altre parole, ci si aspettava che le iniziative giudiziarie promosse da coloro che lamentano un danno (e sovente nutrono un rancore), a seguito di vicende giudiziarie, determinassero un costume più attento, una migliore conduzione delle vicende stesse.

Ma quando dalle virulente dichiarazioni polemiche si è dovuto passare alla concreta disciplina legislativa non è stato possibile sfuggire ad alcune elementari esigenze pratiche.[5]

Si è dovuto, in primo luogo, prevedere che la responsabilità civile del giudice sussista solo in caso di errori macroscopici, per impedire che da ogni controversia ne nasca un’altra volta ad accertare l’errore del giudice che ha deciso la prima, in una catena allungabile all’infinito. Poi si è dovuto stabilire che la controversia sulla responsabilità civile possa essere introdotta sol quando l’atto non sia più impugnabile; onde scongiurare il rischio di “processi paralleli”, magari con esiti contraddittori. Ed è, ancora, stato necessario introdurre filtri e limiti alla citazione “diretta” in causa del giudice, per evitare intimidazioni e forme di “ricusazione impropria”, cioè che la controversia sulla responsabilità  civile venga introdotta-specie da soggetti facoltosi cui sia indifferente la condanna a rimborsare le spese di giudizio-non per raggiungere un risultato di ristoro patrimoniale, ma per indurre il magistrato a non occuparsi di determinate faccende.

Non è certo questa la sede per sviscerare simile prospettazione e per esaminare la legge 117/1988 che ha regolato la responsabilità civile del magistrato. Basterà qui sottolineare che il diffuso ricorso dei magistrati alla assicurazione contro i rischi e lo scarso numero di processi intentati, hanno, in questi quindici anni, relegato l’istituto in un ambito del tutto marginale. In sostanza, al cittadino che si considera danneggiato viene offerto un rimedio del tutto apparente ed illusorio da cui nella quasi totalità dei casi non ricaverà che ulteriori delusioni (ed ulteriori spese).

Appare comunque di qualche interesse dar conto della giurisprudenza della Cassazione che appaia significativa; essa per la quasi totalità è composta da sentenze che confermano pronunce di merito dichiarative della inammissibilità della domanda dell’attore. Solo nel 1999 si è avuta una sentenza della Corte che ha dichiarato ammissibile l’azione”.

A questo punto Cicala passa ad elencare tutta una serie di sentenze della Cassazione che dimostrano, nei fatti, come la responsabilità civile dei magistrati sia solo una chimera, una vana illusione.

Sono attinti dalla raccolta di Cicala alcuni casi:

 

 

1)La illegittima perquisizione di uno studio legale.

 

La maggior parte delle controversie di responsabilità civile in base alla legge 117/1988 vengono promosse da magistrati, o in proprio da avvocati, e sono stati proprio due avvocati, a quanto risulta, i primi ad ottenere dalla Cassazione (Cassazione civile, Sez.I, 30 luglio 1999, n.8260) la dichiarazione di ammissibilità della controversia.

Nel caso di specie il Pubblico Ministero di Napoli aveva disposto la perquisizione dello studio di tre professionisti, senza procedere alla comunicazione al Presidente del consiglio dell’ordine prescritta dall’art. 103 c.p.p. La Cassazione conferma la inammissibilità della controversia promossa da quello dei tre legali che aveva assunto la veste di indagato in quanto secondo il pm la norma dell’art. 103 c.p.p. “…è stabilita a tutela dell’attività professionale del difensore, mentre, nel caso di specie la perquisizione…mira a colpire oggetti detenuti dall’avv. Molinaro Lorenzo Bruno non nella qualità di difensore, bensì di indagato nei reati di…”(decreto 30 gennaio 1995).

Tale motivazione, ancorché in consapevole contrasto con un indirizzo giurisprudenziale delle Sezioni Unite della Cassazione (Cass. Sez. Un. 12 novembre 1993, Grollino, in Foro it.,1994,II,205), esclude la responsabilità civile del magistrato, anche perché è dato reperire un indirizzo giurisprudenziale conforme alla soluzione adottata dal pm di Napoli e secondo cui “i divieti di cui all’art. 103 c.p.p. si riferiscono esclusivamente alle garanzie del professionista che assiste la parte privata nel procedimento nel quale sono adottate le misure in discorso e non ad altri” (Cass. Sez. II, 12 novembre 1998, Benini).

Ma a opposte conclusioni perviene la Cassazione per quanto attiene alla posizione degli altri due avvocati –che non assumevano la veste di imputati ma di difensore e collega del difensore- e ai quali, quindi, proprio in base al ragionamento del pm, competevano le garanzie di cui all’art.103 c.p.p. Questa sentenza è stata,come detto, la prima a dichiarare ammissibile l’azione di responsabilità civile.

 

2) L’ambito di applicazione della legge 117/1988: responsabilità civile ed attività amministrativa del magistrato.

 

La scarsa attitudine delle norme sulla responsabilità civile del magistrato sia ad assicurare un adeguato ristoro patrimoniale al danneggiato, sia a indirizzare la condotta dei giudici in conformità ad accettabili parametri deontologici, è dimostrata dalla sentenza della Cassazione n.11860 del 26 novembre 1997, che ha concluso in termini assai deludenti per il danneggiato una vicenda in cui si era visto riconoscere dalla Corte d’Appello di Genova il consistente risarcimento di un miliardo e mezzo di vecchie lire con rivalutazione ed interessi dal 1985, per i danni conseguenti alla omessa manutenzione di una nave sottoposta a sequestro penale.

A fondamento di tale pronuncia il giudice di merito aveva posto la valutazione secondo cui le attività di carattere amministrativo poste in essere dal magistrato (nel caso di specie in riferimento al bene sequestrato) non ricadono nella specifica disciplina sulla responsabilità civile del giudice.

La Cassazione ha invece affermato, sia pure in relazione agli abrogati artt. 55 e 74 cod. proc. civ. (ma la decisione secondo Cicala coinvolge anche la legge 117/1988) che la disciplina in questione riguarda tutta indistintamente “l’attività giudiziaria”del magistrato (giudice o pubblico ministero) e non soltanto le sue “attività giurisdizionali”. Quindi regolamenta non soltanto l’attività connessa all’esercizio di attribuzioni decisorie, ma qualunque attività svolta dal magistrato nel campo giudiziario, a prescindere dalla natura delle funzioni esercitate (giudicante, requirente, inquirente) o dall’attività concretamente svolta nell’esercizio di tali funzioni: ossia, tanto giurisdizionale di cognizione od esecutiva, quanto di volontaria giurisdizione,o, addirittura, amministrativa, quale- ad esempio- quella del giudice delegato alle procedure concorsuali relativa alla direzione ed al controllo dello sviluppo del procedimento,e,talora anche alla loro gestione attiva.

Conseguentemente la materia della responsabilità del giudice per i danni cagionati dai suoi comportamenti nell’ambito della sua attività strumentale alla conservazione ed alla manutenzione di un bene sequestrato per il procedimento penale, rimane assoggettata alla disciplina di cui ai citati artt. 55 e 74 cod. proc. civ. Ed il privato ha molte meno possibilità di conseguire un ristoro patrimoniale.

 

3) Responsabilità civile e magistrati del pubblico ministero

In base alla sentenza della Cassazione n. 5174/1997, l’applicabilità ai magistrati del pubblico ministero, nell’esercizio delle loro attribuzioni penali, dell’art. 55 comma primo del cod. proc. civ. (abrogato unitamente ai successivi articoli 56 e 74 dello stesso codice, a seguito di referendum, con effetto dal centoventesimo giorno successivo alla data di pubblicazione del d.P.R. 9 dicembre 1987, n.497) non deriva da una inammissibile interpretazione analogica del cit. art. 74, non consentita dal carattere eccezionale della norma, ma dalla stessa formulazione dell’art.55, nel quale il riferimento al “giudice”come possibile soggetto di responsabilità civile comprende chiaramente e inequivocabilmente non i soli magistrati investiti di funzioni giudicanti, ma tutti gli appartenenti all’ordine giudiziario, come definito e descritto dall’art. 4 del R.D. 30 gennaio 1941, n.12. Al riguardo, secondo quanto precisato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.2 del 1968, deve infatti tenersi presente, per un verso, che nell’ambito dei funzionari e dipendenti dello Stato cui fa riferimento l’art. 28 Cost. per fissare il principio della loro diretta responsabilità (la cui disciplina, può assumere varietà di contenuto in relazione alle diverse categorie e situazioni) sono compresi i magistrati, e per altro verso che l’inapplicabilità della sopraindicata normativa del codice di rito civile agli illeciti posti in essere dai magistrati del pubblico ministero nell’esercizio delle attribuzioni penali comporterebbe un’interpretazione contrastante con la norma di cui all’art. 107, comma terzo, Cost., secondo la quale i magistrati si distinguono fra loro solo per diversità di funzioni, e pertanto contraria al canone ermeneutica che delle possibili interpretazioni di un enunciato normativo privilegia quella conforme ai parametri costituzionali.

 

4) Valutazione del fatto e responsabilità civile

Il Tribunale di Pinerolo dovendo, in applicazione dell’art. 15 della Legge Fallimentare e della sentenza della Corte Cost. n.141 del 1970, procedere alla convocazione per l’audizione degli amministratori di una società in nome collettivo e dei soci illimitatamente responsabili afferma -con ampia argomentazione-sufficiente la convocazione di una delle due socie (ed amministratrici) compiuta dai carabinieri a mezzo telefono, e che tale convocazione coinvolga una seconda socia in quanto convivente con la prima. Sulla scorta di queste considerazioni dichiara il fallimento e respinge anche l’istanza di revoca del fallimento stesso. Invece la Corte d’Appello di Torino con sentenza passata in giudicato revoca il fallimento affermando che la suddetta convocazione era inadeguata.

Quindi la società ed i soci promuovono azione di responsabilità civile contro lo stato in base all’art.2 comma 3 lettere a) e b) della legge 117/1988 (inescusabile violazione di legge e errore di fatto inescusabile).

Tribunale e Corte di Appello di Milano ritengono inammissibile la domanda e la loro pronuncia trova il sostegno della Cassazione (Cass. N. 12357, 6 novembre 1999). Afferma la Corte Suprema che il sistema normativo della responsabilità civile dei magistrati, quale risultante dalla coordinazione fra le ipotesi di colpa grave tipizzate dall’art. 2 terzo comma della l. n. 117 del 1988 e la previsione del secondo comma della stessa norma, secondo la quale nell’esercizio di funzioni giudiziarie non può dare luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto e quella di valutazione del fatto e delle prove, non determina un rinvio alla nozione generale di colpa grave, come dispone l’art. 2236 cod. civ. a proposito della prestazione del libero professionista intellettuale implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, ma assume carattere peculiare, sia per la presenza della clausola limitativa di cui al suddetto comma dell’art.2, che si spiega col carattere fortemente valutativo dell’attività giudiziaria, connotata da scelte sovente basate sulla diversità di interpretazioni, sia per la previsione, con riferimento alle ipotesi di cui alle lettere a, b e c del suddetto terzo comma, dell’esigenza che la colpa grave sia inescusabile.

Con riferimento a tali ipotesi, la qualificazione di inescusabilità della negligenza, in quanto aggiunta dalla norma a fini delimitativi della responsabilità, mediante un’esplicazione del concetto di gravità della colpa, integra un quid pluris rispetto alla negligenza, nel senso che essa si deve caratterizzare come “non spiegabile”, cioè senza agganci con la particolarità della vicenda, idonei a rendere comprensibile  -anche se non giustificato- l’errore del giudice. E soggiunge che la lettera b) del terzo comma dell’art.2 della l. 13 aprile 1988 n.117 considera il caso in cui il giudice affermi un fatto incontrastabilmente escluso dagli atti del procedimento, e dunque attribuisce rilevanza, sempre che sia da ascrivere a negligenza inescusabile, all’errore di tipo “revocatorio”, consistente nella supposizione di una circostanza fattuale la cui inesistenza sia chiaramente posta in luce dalle risultanze acquisita agli atti. Ne consegue che non è riconducibile alla fattispecie prevista da detta norma il caso in cui il giudice ritenga il verificarsi di una situazione di fatto senza elementi pertinenti, ovvero sulla scorta di elementi insufficienti (tali reputati nei gradi di giudizio successivi), i quali, pur tuttavia, abbiano formato oggetto di esame e valutazione da parte sua.

 

 

5) Alcuni casi simili al “caso Tortora”

Una conferma della inidoneità dello strumento della responsabilità civile ad incidere sulla realtà della vita giudiziaria scaturisce da un esame della non molta casistica.

Così. Ad esempio, dalla sentenza della Cassazione n. 2201 del 12 marzo 1999 emerge che l’avvocato Piccolo, incarcerato sotto l’accusa di essere il “consigliere-consigliori” di una cosca mafiosa, e successivamente prosciolto con formula ampia, chiede il risarcimento di un miliardo asserendo che il pm ed il gip che lo avevano privato della libertà personale, avevano agito con colpa grave, consistente nell’essersi affidati alla parola di un pentito, priva di supporti probatori.

Il Tribunale, la corte d’Appello, e la Cassazione concordi rispondono che la causa è inammissibile perché non è sindacabile l’attività del giudice di valutazione della prova, né il fatto addebitato all’avvocato Piccolo era positivamente escluso dalle risultanze processuali, ma era solo sorretto da elementi probatori insufficienti a supportare una condanna.

A questa vicenda, che ha coinvolto un avvocato, si può affiancare quella del magistrato dott. Giuseppe Recupero.

La Corte di Cassazione (sentenza n.9811 del 19 giugno 2003) ritiene sufficientemente motivato e perciò meritevole di conferma il decreto con cui la Corte d’Appello di Messina aveva ribadito la pronuncia con cui il Tribunale aveva dichiarato inammissibile l’azione civile proposta dal dott. Giuseppe Recupero. Recupero lamentava di essere stato detenuto in carcere per quasi quattro mesi a seguito di ordinanza di custodia cautelare dal gip di Reggio calabria con l’accusa di lesioni personali e corruzione; accusa da cui era stato successivamente prosciolto con formula ampia.

In particolare il dott. Recupero sottolineava che uno dei reati indicati nel provvedimento di custodia cautelare (le lesioni personali) non rientrava fra quelli che consentivano tale misura; ma il giudice della ammissibilità aveva replicato che non vi era ragione per ritenere che la custodia cautelare non sarebbe stata ugualmente disposta solo per i reati che consentivano tale misura e che nessun danno era venuto al dottor Recupero per la diffusione della notizia secondo cui era detenuto anche per il reato di lesioni personali.

Sorte analoga (sia pure per ragioni procedurali) subisce la vicenda del sig. Vittorio Barletta; che cita invano davanti al Tribunale di Reggio Calabria la Presidenza del Consiglio dei ministri chiedendone la condanna al risarcimento dei danni derivati dall’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal gip presso il Tribunale di Catanzaro su richiesta del pm presso lo stesso tribunale, nell’ambito di indagini nelle quali era stato accusato dei reati previsti dagli articoli 81 e 319 c.p. e 74 d.p.r. n. 309 del 1990. L’ordinanza era stata annullata dopo qualche mese dal tribunale del riesame e con sentenza del gip in data 7 luglio 1994, divenuta irrevocabile il 28 settembre 1994, l’imputato era stato prosciolto dalle imputazioni. Con provvedimento del 16 settembre 1996 era stato archiviato anche un procedimento nel quale il Barletta era stato accusato del reato di falso ideologico.

Si tratta,a detta di Cicala, di pronunce sicuramente conformi alla legge, ed alle esigenze di funzionalità del sistema. Se si desse adito ad azioni di questo genere si realizzerebbero controversie civili ripetitive del processo penale, che potrebbero pervenire a risultanze con esse contrastanti.

Ben potrebbero darsi infatti, ad esempio, sentenze civili che riconoscessero la fondatezza della accusa respinta dal giudice penale. In quanto il giudicato penale di proscioglimento dell’imputato non fa stato nel processo civile che vede convenuti-uti singuli- il pm o il giudice penale.

Ma queste logiche considerazioni ribadiscono, secondo Cicala, la inutilità della legge 117/1988, su cui sono state demagogicamente alimentate le speranze dell’opinione pubblica.

 

 

6) L’azione diretta di cui all’art. 13 della legge 117 del 1988.

Le sentenze 6696 e 6697 del 29 aprile 2003, 11880 del 29 settembre 2001, 15710 del 13 dicembre 2000, 11044 del 4 novembre 1998 e n. 4386 del 13 maggio 1999 ribadiscono che la norma di cui all’art. 13 della legge n. 117 del 1988, laddove consente l’azione diretta nei confronti sia del magistrato che dello Stato (quale responsabile civile) nella ipotesi di reati commessi dal magistrato nell’esercizio delle proprie funzioni, ponendosi su di un piano ontologicamente diverso rispetto alle ipotesi di responsabilità contemplate dal precedente art. 2 (e ss.) della legge citata, ha riguardo a fattispecie caratterizzate-rispetto all’ipotesi del dolo di cui al ricordato art. 2- dall’ulteriore requisito della costituzione di parte civile nel process penale eventualmente instauratosi, ovvero della eventuale sentenza di condanna del magistrato passata in giudicato.

Conseguentemente, prospettatasi, in difetto di tali due presupposti, la eventualità che il danno ingiusto lamentato sia conseguenza di reato, la relativa domanda non si sottrae al giudizio di ammissibilità previsto dall’art. 5 della legge citata. Invero, ove il preteso danneggiato possa liberamente agire in un giudizio civile prospettando, “sic et simpliciter”, ipotesi di reato a carico del magistrato convenuto, risulterebbero completamente vanificati le limitazioni ed il “filtro” imposti dalla legge all’ammissibilità dell’azione predetta.

La sentenza n. 4386/1999 precisa poi che nel giudizio di responsabilità diretta dei magistrati instaurato in forza dell’art. 13 della legge 117/1988, lo Stato eventualmente evocato in giudizio in veste di responsabile civile è, in virtù della rappresentanza processuale conferita dall’ordinamento ai Ministeri (D.lgs. 1611/1933 e successive modifiche), rappresentato in giudizio dal Ministero di appartenenza del dipendente e, pertanto, da quello della Giustizia (e non anche dalla Presidenza del consiglio dei ministri).

Detto ciò, è ora il caso di soffermarsi sull’impatto che una simile disciplina ha sull’opinione pubblica.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA RESPONSABILITà CIVILE DEI MAGISTRATI E L’OPINIONE PUBBLICA

 

 

 

 

Prima di esaminare qual è il riflesso sull’opinione pubblica di quella che è sostanzialmente l’irresponsabilità civile dei magistrati, sarà opportuna una breve precisazione metodologica. Si farà di seguito ampio uso dell’opinione non solo di giuristi, ma anche, e soprattutto, di giornalisti, scrittori, intellettuali più o meno impegnati politicamente. La scelta è mossa dalla convinzione che essi, non solo influenzino l’opinione pubblica, ma ne siano anche parte; la orientano sì, ma ne sono anche a loro volta orientati. Il giornalista, per esempio, non solo tenta, come opinionista, di orientare il pubblico, ma ne è anche influenzato. È per questo motivo che i giornali sono spesso l’osservatorio privilegiato per ricostruire le vicende storiche sia del secolo che ci siamo lasciati alle spalle sia di quello che si è aperto dinnanzi a noi. I giornali sono fucine intellettuali che orientano e sono orientati; dove si discute e che fanno discutere. Sono proprio i giuristi che  spesso, nella società di massa, scendendo dalle loro cattedre accademiche, non si limitano solo a parlare fra loro, ma sui giornali, fra la gente. E così si assiste a dispute fra giuristi di diverso orientamento svolgersi appunto sulle colonne dei giornali, in televisione, non più solo in ambienti accademici. È una premessa questa, necessaria. Non si può negare, che attorno alla magistratura, per ragioni politiche (rectius: politico-giudiziarie) si è acceso negli anni novanta, senza mai spegnersi, un accesissimo dibattito, che proprio in questi giorni appare essere giunto ai vertici della tensione. Tutto è cominciato con Tangentopoli e prosegue tuttora. Il mondo politico, così come quello accademico, si trova così diviso, per non dire spaccato, fra chi svolge una difesa a oltranza della magistratura, e chi invece ne denuncia gli eccessi di potere, le impunità, i clamorosi errori giudiziari. Come si avrà modo di dimostrare, a farne le spese sono i cittadini, la società tutta, che alla fine paga il costo di una incapacità di riformare un sistema giudiziario al collasso.

La politica appare incapace di reagire e di prendere le giuste misure.

Si anticipa la conclusione di questo breve lavoro,conclusione che di qui a breve si andrà ad argomentare: l’impressione dei cittadini, siano essi istruiti o meno, siano essi incappati nei mali della giustizia oppure no è la seguente:

1)     la giustizia italiana non funziona;

2)     i magistrati che sbagliano non pagano mai a causa di una legge che sostanzialmente ne garantisce l’impunità;

3)     non solo i magistrati che sbagliano non pagano ma, grazie ad un sistema di promozioni che non privilegia solo il merito, in quanto automatico, fanno anche carriera.

 

Nel 1987, come è noto gli italiani sono chiamati a pronunciarsi sul referendum per la chiusura delle centrali nucleari sia sul referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Roberto Gervaso[6], noto giornalista e scrittore di successo, ricorda quel momento così, con amarezza e ironia:

“L’altro referendum sulla responsabilità civile dei magistrati schiera due terzi dei votanti contro i giudici e i pubblici ministeri che sbagliano e non pagano, condannano i cittadini innocenti e la fanno franca. D’ora in poi dovranno risarcire le vittime. Non le risarciranno mai e nessuno gli presenterà il conto. Strano destino di un verdetto popolare.”

Come può ben vedersi, Gervaso dà sì un’opinione sua, ma non si limita a questo, egli raccoglie infatti quello che è il sentire comune di quei due terzi dei cittadini che hanno viste deluse le proprie aspirazioni e tradita la propria volontà. E pensare che il referendum è uno strumento che i padri costituenti inserirono per rendere più effettiva la sovranità popolare!

Ma, come sopra accennato, il dibattito sulla responsabilità civile dei magistrati si infiamma ancora di più a metà degli anni novanta quando, con Tangentopoli, viene sostanzialmente liquidata la c.d. Prima Repubblica e il Parlamento è preso di mira soprattutto dalla Procura di Milano. Infiamma la battaglia, sia nelle Aule parlamentari, sia sui media.

In quel periodo, si distingue in modo particolare nel sostenere la tesi secondo cui “i magistrati che sbagliano non pagano” l’on.Vittorio Sgarbi.

Sgarbi, sia in aula sia tramite la trasmissione da lui condotta, “Sgarbi quotidiani”, in maniera spesso veemente, provocatoria, accesa, attacca i giudici e quella che considera la malagiustizia. Egli è convinto che la magistratura non solo ricatti il Parlamento ma che faccia un uso barbaro della carcerazione preventiva approfittando di un’opinione pubblica resa compiacente verso il giustizialismo dai media che cavalcano l’onda del sensazionalismo giudiziario.

A titolo esemplificativo, si trascrive uno stralcio del discorso dell’on. Sgarbi tenuto il 15 luglio del 1993 quando fu chiesta l’autorizzazione a procedere contro l’on. Giuseppe Fortunato con la richiesta di arresto per quest’ultimo. Sgarbi intende non tanto discutere sul merito dell’indagine, ma sull’abuso di carcerazione preventiva e sostiene che:[7]

“(…) Credo, infatti, che un elemento sostanziale ponga in evidenza il fatto che è ingiusto, non per un parlamentare ma per chiunque, essere arrestato sulla base di ipotesi: mi riferisco all’adozione di misure cautelari per impedire l’inquinamento delle prove. (…) Di fronte alle dichiarazioni che lo stesso Presidente Scalfaro ha dato rispetto alla custodia cautelare, mi sono posto il seguente problema: se noi dovessimo, indipendentemente dall’acclarata incompetenza di quel direttore generale (che quindi è giusto sia stato rimosso dal suo posto, ma soltanto per manifesta inadeguatezza tecnica), venire a sapere un giorno che era innocente e vederlo prosciolto dalle accuse, avremmo umiliato un uomo con l’arresto e gli avremmo tolto un posto che non potrà più riavere (applausi); ma anche se lo dovesse riassumere, non lo riassumerebbe più con la dignità psicologica e fisica di prima. Invece, il giudice che lo ha arrestato non pagherebbe nulla: non verrebbe né sospeso né rimosso dalla sua funzione! Ciò è accaduto  nel caso Tortora: i magistrati che lo avevano rinviato a giudizio e lo hanno fatto morire oggi risultano promossi.(…). Ma devono pagare anche i magistrati!”.

Questo e altri interventi, ripetuti con vasta eco sui media, e inseriti in un contesto di forte contrasto tra politici e magistrati, tra avvocati e magistrati, tra giornalisti, intellettuali, in un clima di rissa costante che ha lasciato e lascia sbigottita la pubblica opinione contribuirà a generare un clima di sospetto e di diffidenza verso la magistratura. Il cittadino, infatti, non capisce come mai chiunque sbagli sia soggetto a responsabilità civile e come invece chi abbia ingiustamente perseguitato un uomo, non solo non paghi un centesimo… ma venga addirittura promosso!

Se il tradimento della volontà popolare, chiaramente espressa con il referendum, era passato non inosservato, ma in ogni modo non aveva suscitato chissà quale eco, la riproposizione della questione, a volte strumentale, a volte no, della malagiustizia, riemerge in maniera drammatica.

Il mondo dei giuristi si divide. Dinnanzi  al fenomeno Tangentopoli, che fa riemergere i temi dell’opposizione garantismo/giustizialismo; approvazione o meno dell’opera dei magistrati; separazione o no delle carriere dei giudici, gli studiosi sono spaccati.

Un grande giurista liberale, Vincenzo Caianiello, stigmatizzò duramente il comportamento dei magistrati, in particolare dei p.m., durante Tangentopoli.[8] Caianiello, prima magistrato, poi presidente della Corte costituzionale, infine docente di Istituzioni di diritto pubblico, ad un certo punto della sua vita decise di rompere quel riserbo al quale si era ispirato durante tutta la sua carriera professionale e cominciò ad intervenire costantemente nel dibattito pubblico sui temi come la riforma costituzionale, il federalismo e soprattutto sul ruolo svolto dai magistrati negli ultimi anni. In un suo scritto “La giustizia penale tra funzione e missione” criticando quello che secondo lui era il protagonismo dei pubblici ministeri, citava Jean Bodin che già nel 1583 aveva escluso che l’esistenza in un soggetto della capacità e del potere di emanare sentenze fosse identificabile come una marca inequivocabile di sovranità. Il Sovrano, secondo Bodin, è posto in una relazione di squilibrio gerarchico con il suddito, egli è superior nel rapporto di soggezione politica, mentre chi giudica è in qualche modo pari grado con il giudicabile, perché necessariamente e funzionalmente il giudice condivide con quest’ultimo la comune soggezione ai valori, alle regole ed alle norme per cui il giudizio stesso ha corso. Il giudice quindi si distingue dal Sovrano perché, soltanto Magistrato, legato alle parti private del giudizio da un rapporto che l’autore definisce di colleganza, determinata dalla “comune sottoposizione alle regole del gioco (…). Il giudice non parla di giustizia, ma enuncia giudicati; non emana precetti a contenuto etico, ma motiva enunciati a contenuto pragmatico sullo stato delle cose e delle persone in ordine ad un sistema dato di regole (norme) che non gli appartengono ma in qualche modo lo sovrastano (…) il giudice non è un soggetto libero, né un liberatore”.  Ed invece, secondo Caianiello, molti comportamenti dei nostri magistrati (di rado appartenenti al ruolo dei giudicanti) si collocano in una posizione ancora più estrema, rifiutando addirittura, con quei comportamenti, di sentirsi partecipi di una medesima sovranità. Essi sembrano, continua Caianiello “ agire e proclamarsi , in camicia o con i fax, come titolari di una sovranità parallela, (non condizionabile in alcun modo da quella nella quale si collocano gli altri poteri) anche se priva di legittimazione democratica nel senso inteso dal costituzionalismo liberale (cui chi scrive rimane indissolubilmente legato), ma acclamata dal circuito popolare-mediatico, lo stesso che viene giustamente condannato da alcuni intellettuali, ma solo a senso unico, quando non fa comodo alla loro parte. Insomma la giurisdizione vista non come attuazione del diritto nel caso concreto, ma come predicazione di un’astratta legalità”.

E ancora, polemizzando con i settori politicizzati della magistratura:”(…) Chi si investe del “controllo della legalità”, difficilmente può essere disposto a vederlo ridimensionato. Un controllo peraltro che, stranamente, quando viene evocato, suscita reminiscenze di altri ordinamenti. L’art.113 dell’ultima costituzione sovietica prevedeva:”L’alta vigilanza sull’esatta applicazione delle leggi da parte del Ministero e delle istituzioni che da esse dipendono, è demandata al Procuratore generale dell’Urss”, nominato (art.114) dal Soviet supremo dell’Urss e che nominava (art.115) i procuratori delle Repubbliche, dei territori, delle regioni, delle Repubbliche autonome.”

Come è facile notare, si trova, nelle parole di Caianiello, conferma di quanto sopra si scriveva riguardo al ruolo dei giornalisti, degli intellettuali, dei giuristi, dell’opinione pubblica in rapporto al tema di una rivisitazione del sistema giurisdizionale che non può discutersi in maniera pacata a causa sia della mai chiusa polemica su Tangentopoli sia per il conflitto tra politica e giudici che mentre questo lavoro viene scritto è più accesa che mai.

Tale asserzione trova riscontro anche in un altro scritto di Caianiello, “I giorni del terrore” dove ancora si stigmatizza duramente il comportamento dei giudici (rectius: dei pubblici ministeri) durante Tangentopoli. Secondo l’Autore dopo anni in cui la magistratura era rimasta silente, a un certo punto si svegliò, si accesero attorno ad essa diffusi consensi che si espressero anche con manifestazioni di pubblico consenso e di atteggiamenti ingiuriosi e di scherno verso coloro che venivano indagati. “Manifestazioni che apparvero non di rado sollecitate dagli stessi soggetti che conducevano le indagini, tanto è vero che qualche anno dopo uno di essi, cessati quegli entusiasmi popolari, lamentò di non sentirsi più circondato dal consenso che aveva animato la loro azione, come se il magistrato per esercitare le sue funzioni debba essere sorretto da tifoserie da stadio.” L’attacco è duro e si inasprisce ancora di più quando Caianiello afferma:”Si coniarono nomi che aborrisco e di cui non ho mai fatto uso nei miei scritti e non ne farò, se non solo questa volta, come “Tangentopoli” e “Mani pulite” da esportare addirittura nel mondo, come nuovo messaggio evangelico. Terminologia rozza e volgare che accomunava l’azione giudiziaria, che per sua natura deve essere esercitata, per dirla prendendo a prestito un’espressione coniata ad altri fini, frigido pacatoque animo, a campagne guerresche. Rabbrividimmo all’ascolto di testimonianze le quali narravano di magistrati titolari di indagini i quali avevano affermato di voler “sfasciare”i propri inquisiti (altro che “cultura della giurisdizione”ipocritamente sbandierata ancor oggi per contrabbandare l’attuale commistione dell’accusa col giudice) o di voler “rivoltare il Paese come un calzino” o sostenendo che la classe politica fosse “tutta ricattabile”, senza che il capo dell’ufficio, come sarebbe stato suo preciso dovere, togliesse loro i processi perché tutto quello che essi avrebbero compiuto, anche se obbiettivamente “giusto”, avrebbe perduto credibilità”.

E allora: posto che la giustizia, per unanime opinione è in crisi; posto che vi è un diffuso malcontento popolare nei confronti della malgiustizia; posto che l’ordinamento giudiziario è da riformare, quali potrebbero essere i rimedi? Sempre secondo Caianiello basterebbe “tornare alla costituzione”.

A detta dell’autore bisogna partire da Montesquieu per comprendere con immediatezza le ragioni del disastro del nostro sistema giudiziario, perché è proprio nella deviazione dal lucido disegno montesqueiano, cui si ispira largamente la nostra Costituzione (salvo che sul punto essenziale della temporaneità dei giudici per evitare che essi si costituiscano in Potere, in Corpo separato in contropotere), che risiedono le ragioni del disastro del nostro sistema giudiziario. La vicenda nell’Europa continentale ha seguito rispetto a quel modello itinerari obliqui e diversificati, che sarebbe troppo lungo ripercorrere.  Una premessa storica importante per capire come gli scontri della magistratura con il Potere politico siano stati dettati, anche in altri paesi d’Europa, dall’intento di Corpi magistratuali di accumulare potere incontrollato ed esente da responsabilità (Ricterprivileg, nella storia dei paesi germanici).

Per seguire gli sviluppi si deve ricordare che in Francia Assemblee rivoluzionarie e Convenzioni erano memori degli scontri con il Potere assoluto, nell’ancien règime, quando i Parlaments (uffici giuridici posseduti come feudi dai loro titolari, ereditariamente trasmissibili ed alienabili), specie quelli di Parigi, si battevano non in difesa di libertà, come i giudici inglesi, ma per gretta conservazione di odiosi privilegi. Primo fra tutti, quello della esenzione della responsabilità per i danni cagionati dal loro operato, nonostante che le ordonnances di Louis XIV ne sancissero più volte l’assoggettamento, sulla scia dell’istituto dell’ Ephesis che Aristotele considerava come la più democratica tra le istituzioni soloniane. Le ordonnances venivano costantemente disattese dai giudici che rifiutavano di applicarle a se stessi.

Nell’Assemblea e nella Convenzione si discusse del pericolo del Governo dei giudici perché si temette che con il loro strapotere essi potessero vanificare le conquiste della Rivoluzione. L’ordinamento napoleonico sciolse il nodo, trasformando il ruolo dei giudici in quello di salariès par l’Etat, soggetti all’Esecutivo e sacrificando perciò alla responsabilità disciplinare quella civile, che venne fortemente limitata se non del tutto eliminata.

L’ampia immunità concessa sul terreno della responsabilità civile sembra quasi costituire il prezzo pagato in cambio dell’assoggettamento del giudice al controllo politico e della sua riconduzione in un apparato del quale lo stesso potere politico si fa garante, nel suo complesso, del corpo sociale, proprio perché su tutti i giudici tale potere è in grado di assicurare il controllo attraverso la potestà disciplinare, incentrata sulla censurabilità di comportamenti non tassativamente indicati ma individuabili nella stessa fase disciplinare, in quelli atti a compromettere la dignità e il prestigio della funzione.

A questa trasformazione della figura del giudice in funzionario, ereditata dalle nostre leggi di unificazione, pose dei correttivi la ideologia dello Stato liberale in un periodo compreso tra il 1890 ed il 1908, con una regola che da Vittorio Emanuele Orlando venne sintetizzata nel concetto:”garanzie assolute-disciplina di ferro”. La linea di demarcazione fra la concezione napoleonica e quella del nostro Stato liberale è stata individuata dalla dottrina nel passaggio della concezione del giudice-funzionario, controllato tout court dal Governo, alla concezione del giudice allo stesso tempo tecnico e funzionario, in cui traspare l’idea del magistrato come strumento neutrale per l’attuazione della legge, e quindi circondato da garanzie atte ad assicurare l’indipendenza nell’esercizio della funzione, anche se questa posizione risulta garantita dalla stessa autorità governativa. Situazione questa che nella legislazione fascista consentirà di attuare, con certi piccoli ritocchi del sistema, un qualche controllo politico sull’attività del giudice, anche se il regime non si fidò dei magistrati tutti di formazione liberale e per cautelarsi creò i tribunali speciali.

L’avvento della Costituzione repubblicana, nel mentre ha sottratto l’apparato giudiziario al controllo degli altri poteri, ha fatto sì che nel tempo anche i controlli interni all’ordine giudiziario, specie quelli paradisciplinari, trasferimenti e diniego di promozioni, si siano andati fortemente attenuando. Ciò ha consentito  al giudice una libertà di comportamenti che, quando non temperati da autocontrollo o dal rispetto di regole di garanzia e di correttezza, hanno spesso suscitato reazioni nel corpo sociale, che avendo dovuto accettare l’esenzione del magistrato dalla responsabilità civile non ha visto attuata quella disciplinare.

Per una strana eterogenesi dei fini, continua Caianiello, qui da noi un referendum che si era concluso trionfalmente per l’abolizione della prerogativa della irresponsabilità civile dei giudici, è stato capovolto dal legislatore con una legge che ha eliminato anche quei casi in cui era possibile nella disciplina abrogata che il magistrato fosse chiamato a rispondere, come era espressamente previsto per il pubblico ministero nel processo penale.

A ciò si è aggiunto uno scadimento nella pratica del reclutamento da far giungere Caianiello ad una conclusione, da egli stesso ritenuta eccessivamente severa, in una ricerca commissionata per incarico del Consiglio superiore della magistratura, ma rimasta sepolta negli Archivi del Parlamentino(!?) secondo cui “confrontando con il giudice di common law, il magistrato di professione, che opera (come da noi) negli ordinamenti giuridici appartenenti al regime romano canonico o di civil law, risulta drammaticamente scialbo ed insignificante”.

A questo continuo degrado, continua l’Autore, specie concretatosi nella costante violazione del principio cardine della deontologia, secondo cui il giudice parla solo con le sentenze, ha fortemente contribuito l’avvenuta trasformazione, in aperta violazione della Costituzione, del Csm in organo di autogoverno-che ha assunto sembianze di Parlamento(?!) politicamente autoreferente perché privo di legittimazione democratica-non voluto affatto come tale dalla Costituente, dai cui lavori risulta che fosse invece costante la preoccupazione di escludere che lo fosse proprio per evitare che la magistratura si ergesse a quel Corpo separato temuto da Montesquieau. Per questo esso deve limitarsi ad amministrare la carriera dei magistrati essendo organo di rilevanza costituzionale (non un organo costituzionale) cui l’art. 105 attribuisce funzioni di natura esclusivamente amministrativa per gestire la carriera (“[…] le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari[…]” senza che l’art. 105 aggiunga altro). Insomma un organo amministrativo indipendente dall’esecutivo (in un certo senso antesignano delle più recenti Authority di garanzia) destinato a svolgere soltanto le funzioni amministrative esercitate in precedenza dall’Ufficio primo della Direzione generale del personale del Ministero di Grazia e giustizia. Già la legge istitutiva del Csm, nell’attribuirgli anche funzione consultiva, è incostituzionale, essendo le sue attribuzioni tassativamente scolpite nella Costituzione, dato che questa ubi non dixit non voluit (perché diversamente, come in altri articoli, vi sarebbe stata la clausola di chiusura del tipo: “nonché altre funzioni previste dalla legge”) per cui non si vede come sia possibile sostenere che un regolamento organizzativo interno privo di efficacia normativa esterna consenta al vicepresidente di far trattare argomenti al di fuori di quelle attribuzioni. Insomma Caianiello stigmatizza duramente sia il comportamento di settori della magistratura, sia del Csm lamentando una violazione della Costituzione  e proponendo delle modifiche, sia legislative, sia costituzionali, per porre un argine a quella che gli sembra essere una vera e propria deriva.

Tali riforme sono: divieto di iscrizione per i giudici a partiti politici e di partecipazione o collegamento ad ogni attività di questi ultimi; natura esclusivamente amministrativa delle funzioni del Csm elencate nell’art. 105 e divieto dell’organo di occuparsi di argomenti diversi da quelli scritti in Costituzione; rottura del cordone ombelicale di quest’organo amministrativo con le correnti di potere del sindacato tornando al vecchio sistema elettorale uninominale  se mai integrato dal sorteggio; netta separazione delle carriere dei magistrati di accusa dai giudici, senza mezzi termini, purchè entrambe amministrate dal Csm in base alla legge ordinaria; restituzione agli organi di polizia del pieno potere di iniziativa delle indagini sotto la costante vigilanza dell’autorità giudiziaria cui deve essere contemporaneamente conservato il potere di disporre direttamente della polizia giudiziaria ove ritenga di condurre indagini di propria iniziativa;una legge dello Stato  che disciplini i criteri di priorità per l’esercizio dell’azione penale, da attuarsi sotto l’Alta direzione del Procuratore Generale della Corte di Cassazione e attuata dai Procuratori generali;responsabilità civile del pubblico ministero del processo penale, ai sensi dell’art. 28 della Costituzione come era prima del referendum in base all’art. 74 cod. proc. civ. che limitava espressamente la sua irresponsabilità solo nel processo civile.

Come è facile intuire, quindi, anche per Cainiello la legge non solo non ha tenuto conto del referendum… ma addirittura ha peggiorato la situazione precedente!

Tutto ciò con grave dispregio della volontà popolare che, fino a prova contraria, è la fonte di legittimazione della Repubblica!

Il fatto che il referendum sia stato tradito trova ulteriore riscontro nell’intervista di Eugenia Roccella a Mauro Mellini[9], avvocato ed ex parlamentare radicale, definito “ispiratore della politica referendaria, uomo spiritoso e sincero, ma soprattutto politico di incrollabili convinzioni garantiste come pochi”.

Il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, -ricorda Mellini- è stato un momento nodale, un vero e proprio punto di non ritorno, nel conflitto tra il potere politico e una magistratura divenuta eversiva. I segnali che si trattasse di un confronto decisivo c’erano tutti, ma non sono stati recepiti dalla classe politica della Prima Repubblica, la stessa che poi sarebbe rimasta schiacciata nello scontro.

A detta di Mellini la magistratura sarebbe divenuta eversiva anche a causa del compromesso storico. Negli anni si è realizzato un trasferimento di poteri quasi inavvertito, grazie all’abitudine di delegare la soluzione dei conflitti ad organi extrapolitici. Dice Mellini:”(…)Se tu rinunci ad un principio autenticamente maggioritario della democrazia, ogni volta che c’è un conflitto su cui la mediazione è impossibile, l’unica via d’uscita è trasferirne la soluzione fuori dall’arena consociativa, fuori dall’arena politica e dal Parlamento, e affidarla ad un potere “terzo”. Quando tra i componenti della consociazione si aprono scontri che non si possono risolvere con i soliti metodi (lo scambio di favori, la spartizione, la contrattazione, e così via) la cosa ragionevole in un sistema democratico sarebbe decidere attraverso un voto di maggioranza. Se questa opzione viene rifiutata a priori, non resta che trovare un mediatore esterno. Insomma con la grande marmellata partitica della Prima Repubblica, si è man mano  rinunciato al potere di contemperare le diverse esigenze degli agenti dei conflitti, che sarebbe compito squisitamente politico.”.

Inoltre Mellini è molto critico nei confronti del Csm e di “tutta la rete protettiva che è stata stesa per via legislativa intorno ai magistrati”. Secondo Mellini: “Basta che un somaro riesca, per fortuna, per caso, per raccomandazione, o per l’aito di San Giuseppe da Copertino, il protettore dei somari, a superare l’esame iniziale, e poi telo ritrovi presidente di sezione alla Cassazione, perché questo è l’unico paese dove nella magistratura non c’è nessun vaglio per la progressione di carriera. Il Csm, poi, è una delle istituzioni più invereconde che esistano e ha dato prova di essere prono a tutte le beghe di potere, e agli interessi più biechi, nell’ambito della magistratura. La carriera dei magistrati ormai è determinata dalla politica, cioè dalla loro vita associativa. Chi ha posizioni di visibilità e di potere mica può andare a lavorare davvero, a fare sentenze; bisogna dargli una funzione direttiva, e così si creano personaggi che sono poi i capi veri, lo stato maggiore della magistratura”.

Come si vede, anche in questo caso, la polemica verso il Csm si accompagna al “tradimento del referendum”. Inoltre, in maniera ancora più esplicita, alla domanda di Eugenia Roccella,che chiedeva chi avesse voluto il referendum, Mellini risponde:”Quel referendum non è stato immaginato personalmente da Marco Pannella, anche se era una battaglia tutta dentro la politica e la cultura dei radicali. Ci sono state delle riunioni con il Psi, con Martelli, ricordo. E i socialisti, forse in maniera un po’leggera, hanno concordato il quesito, senza capire fino in fondo cos’era la politica referendaria. In quegli anni, dominati appunto dal consociativismo, dall’intesa fa Pci e Dc, fare i referendum voleva dire sparigliare i giochi, far saltare i tavoli delle trattative. La strategia era quella di dribblare i partiti e portare lo scontro direttamente nel paese, nel corpo dell’elettorato, sottraendolo alle mediazioni delle forze politiche; quindi chi voleva questo doveva comportarsi, poi, di conseguenza. Purtroppo, alcuni si erano illusi che i referendum camminassero con le gambe proprie, non avessero cioè bisogno di una lotta politica che ne accompagnasse il progetto politico. Questo può succedere: alcuni referendum possono camminare, almeno in parte, con le gambe proprie. Ma se le forze che li sostengono non hanno una visione strategica chiara, non vanno da nessuna parte, se non da parti sbagliate. Va detto che l’idea del referendum nasce comunque con il caso Tortora: Enzo Tortora, presentatore televisivo di enorme successo, fu accusato da un “pentito”, e divenne protagonista di una clamorosa vicenda giudiziaria che impressionò profondamente gli italiani e suscitò una generale diffidenza nei confronti della magistratura. Tortora, sostenuto dai radicali, che lo portarono in Parlamento, fece una battaglia eroica, finita tragicamente con la sua malattia. Certo, il referendum era il frutto di un’intuizione del presente, era legato al caso Tortora, ma affondava le radici nella storia: basta aprire la Storia della colonna infame per leggere che gli orrori della giustizia sono frutto delle passioni, che, come tali, non si possono abolire. L’unica cosa che si può fare è mostrarne gli effetti, perché la gente “li riconosca e li detesti”. Quello era un referendum manzoniano, era il tentativo di mostrare all’opinione pubblica, perché li riconoscesse e li detestasse, i risultati di un uso strumentale e irresponsabile (uso il termine in senso proprio) della giustizia. Per quella parte della magistratura che privilegiava il raggiungimento di finalità esterne all’amministrazione della giustizia (cioè effetti politici immediati, risanamento della moralità pubblica, prospettive rivoluzionarie) il fatto che Tortora fosse colpevole o innocente era del tutto ininfluente, l’accertamento della verità era superfluo. (…) Forse i politici non hanno capito fino in fondo qual era la partita che si stava giocando perché Tortora era un uomo di spettacolo, un outsider, e il suo caso si poteva ricondurre alle forme tipiche dell’errore giudiziario, benché ostinato e clamoroso. Invece era un’esercitazione, perché si è fatta la prova di come fosse possibile distruggere personaggi di rilievo pubblico anche notevole. Tra l’altro anche certe posizioni politiche di Tortora lo rendevano esposto: era un liberale, politicamente isolato.”

Inoltre, a detta di Mellini vi è stato un “compattamento tra Pci e magistrati” per eludere il risultato del referendum: “ Il referendum, come ti ho detto, presupponeva che lo scontro ci fosse e fosse pieno. La magistratura l’ha capito, e il risultato immediato è stato un compattamento tra Pci e magistrati. La grande intuizione di Violante, alla fine, qual è stata? Tutta la storia dei pretori d’assalto, Magistratura Democratica, la teorizzazione dell’uso alternativo della giustizia era inutile se chi la sosteneva rimaneva isolato all’interno della magistratura. Invece l’operazione è stata condotta con spirito leninista, creando legami interni necessari, di interessi, di carriera, in modo che quei personaggi diventassero i leader di una corporazione compattata come tale. Quando interviene il referendum sulla responsabilità civile dei giudici, con la possibilità di colpire le tasche dei magistrati, di tradurre gli errori in esborso di quattrini, con la possibilità di colpire i meno preparati, i più ignoranti o i più ideologici, quelli che fanno cavolate dal punto di vista giuridico, la categoria si è chiusa a riccio; fatto normale e scontato per chiunque avesse previsto di fare il referendum. E qui è scattato il capolavoro politico di Luciano Violante, che avrebbe come detto ai giudici: Signori miei, il paese ne ha le scatole piene di voi! Senza il nostro sostegno politico venite inceneriti, altro che rivoluzione a uso alternativo della giustizia, non vedete come la pensa la gente? Certo, anche noi dobbiamo schierarci, siamo un partito popolare, dobbiamo tenere conto degli umori dell’opinione pubblica. Però faremo in modo che già prima di votare si stabilisca quale dovrà essere il trattamento della responsabilità civile, qualunque sia l’esito del referendum.” È da dire che una tale ricostruzione è avallata anche da Francesco Gazzoni che, nell’introduzione al suo Manuale di Diritto Privato (un testo suggerito per la preparazione al concorso in magistratura!), afferma:[10]”(…)Uno dei cacicchi della Sinistra Regressista, parlando dei suoi esordi in politica (con abbandono di una brillante carriera accademica, conseguente perdita di un potenziale autorevole giurista ed acquisto di uno dei tanti frenatori con la testa girata all’indietro, di cui ci si dovrebbe liberare al più presto) ha candidamente ricordato che il primo importante incarico ricevuto dal partito in cui un tempo militava era stato quello di “ricucire”lo strappo con la magistratura, arrabbiatissima perché il partito aveva appoggiato il referendum sulla responsabilità dei magistrati. Come dimostrò il trattamento riservatogli all’epoca di Tangentopoli, quel partito, in effetti, “ricucì”, tant’è vero che nacque il c.d. “partito dei giudici”, realtà ben triste, che in uno Stato di diritto non dovrebbe essere ipotizzata nemmeno per scherzo”.

E, quando Eugenia Roccella dice:”Questo voleva dire rendere il voto referendario perfettamente inutile”, Mellini afferma:”C’è stato un vero e proprio atto di sprezzo nei confronti della volontà popolare:andate a votare, andate pure, tanto le leggi le facciamo noi. Addirittura fu modificata la legge sul referendum, per stabilire che l’esito del referendum avrebbe avuto effetto 6 mesi dopo il voto e non 60 giorni dopo (come era), per aver modo di completare l’iter della legge sostitutiva prima che l’abrogazione entrasse in vigore. Altro che leggi ad hoc, lì si è modificata la legge sul referendum per quello specifico referendum, cioè esclusivamente per fare un favore alla magistratura! Il Pci spostò il problema, e rassicurò i magistrati, dicendo loro: state tranquilli, noi inviteremo a votare sì al referendum, ma faremo una legge per cui sarà impossibile a chiunque chiedere una lira di risarcimento. Infatti quando si vota si arriva all’82 per cento dei favorevoli, e da quel momento non c’è più responsabilità civile dei magistrati, nemmeno quella scarsissima che c’era prima!”. E ciò nonostante il fatto che, come giustamente rileva la Roccella, “l’opinione pubblica era talmente sensibilizzata e schierata che tutti i partiti avevano preso posizione per il voto favorevole; si era verificata, almeno in apparenza, una strana forma di unanimità. Nonostante ciò, la politica decise di fare un passo indietro e ciò secondo Mellini, avrebbe portato a conseguenze nefaste per gli anni a venire: “Sì: quella che poteva essere la prova di forza nel braccio di ferro tra politica e magistratura, in cui la politica poteva godere dell’immensa risorsa del voto popolare, si tradusse in uno sbeffeggiamento del potere popolare e del potere politico, salvo quello che si apprestava a fare il “compare” della magistratura. È lì che nasce l’organigramma di quella che sarà la forza “golpista” di Mani Pulite. Anche se in certi momenti sicuramente dentro Mani Pulite ci sono stati magistrati che hanno cercato di fare a meno del Pci. A questo punto è difficile stabilire quanto ancora sia saldo il rapporto di dipendenza instaurato, o quanto ormai, nel bailamme di poteri che si sottraggono al controllo democratico, la magistratura giochi una partita tutta sua.”

Come si vede, e come già si era annunciato, le considerazioni non sono scevre da animosità politica. Ed è appunto in chiave politica che deve essere letto l’attuale contrasto tra frange del potere politico e frange più o meno ampie del potere giudiziario. Uno scontro tuttora in atto e di cui anche l’ultimo tentativo legislativo, la riforma dell’ordinamento giudiziario, c.d. Mastella, porta il suggello.

Il tema della responsabilità civile del magistrato è dunque più che mai di scottante attualità.

Si è visto che la volontà popolare è stata abilmente aggirata. Si è visto inoltre che i magistrati non rispondono praticamente mai dei propri errori. Bisogna ora analizzare dal punto costituzionale questo tema. L’occasione di svolgere un’attenta riflessione sulla responsabilità dei giudici si è avuta ad opera di Nicolò Zanon durante il Convegno annuale dell’Associazione Italiana Costituzionalisti svoltasi a Padova tra il 22 e il 23 ottobre del 2004.[11]

L’illustre costituzionalista di Milano ha svolto infatti una relazione dal titolo: Responsabilità dei “giudici”, responsabilità dei “magistrati”, responsabilità del pubblico ministero.

Zanon comincia l’intervento con una precisazione terminologica, con riferimento ai
concetti di “responsabilità” e “giudici”. Iniziando dal secondo termine, a Zanon sembra che il fatto che gli sia stata assegnata una relazione dal titolo “la responsabilità dei giudici”, e non “la responsabilità dei magistrati”sia da prendere sul serio. Infatti, come ben immagina chiunque si sia avvicinato ai problemi costituzionali dell’ordine giudiziario, non si tratta di una sfumatura. È da credere, infatti che appartenga alla nostra consapevolezza il fatto che il termine “giudice” non può essere inteso genericamente come sinonimo di “magistrato”. Dunque, dice Zanon, “il ruolo della relazione assegnatami, pertanto, significa all’apparenza che non dovrei affrontare il tema della responsabilità del pubblico ministero. Questo, o sul presupposto che tale tema sia ricompresso in altre relazioni, oppure sul presupposto che questo tema non presenti caratteri rilevanti di peculiarità, per cui potrebbe ritenersi assorbito da una trattazione di carattere generale riferita riferita alla sola responsabilità del magistrato giudicante.” Questa affermazione (polemica?) di Zanon è seguita da una relazione densa di spunti di grande interesse. L’opinione di Zanon è che, con riferimento alla responsabilità del magistrato del pubblico ministero, esistano aspetti di carattere ordinamentale e funzionale tali da giustificare una trattazione per qualche parte distinta da quella relativa alla responsabilità dei giudici. Già la sola considerazione della diversa natura della funzione svolta invoglia a considerare come potenzialmente diverse le forme di responsabilità derivanti dall’esercizio di una tale funzione. Zanon non insiste oltre sul punto, per non evocare questioni relative all’eterna discussione in punto di reale (o fittizia) obbligatorietà dell’azione penale,problema che i penalprocessualisti conoscono bene. L’Autore precisa che l’ipotetica trattazione distinta della responsabilità del p.m., tale sarebbe solo “per qualche parte”, perché in relazione alle linee di fondo della responsabilità civile e disciplinare, la posizione del magistrato del pubblico ministero è identica a quella del giudice, come si desume, per la responsabilità civile, dal tenore testuale della legge n.117 del 1998 (art.1),e, per la responsabilità disciplinare, dall’unitario riferimento costituzionale, per tutti i magistrati ordinari, al ruolo del Consiglio superiore.

A dimostrazione, tuttavia, del fatto che la responsabilità del p.m. può presentare aspetti differenziati, Zanon propone due esempi, relativi a due questioni particolarmente controverse.

Primo esempio. Come riconobbe la stessa Corte costituzionale (sent. n.52 del 1976), le disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di poteri del capo dell’ufficio sui sostituti non possono essere ritenute illegittime se per alcuni momenti, con riferimento ai quali appare più pronunciato il carattere impersonale della funzione, atteggiano a criteri gerarchici l’attività dell’ufficio. Zanon dice di sapere bene che l’art.70 dell’ordinamento giudiziario, in materia di poteri del titolare, ha subito modifiche che hanno in parte attenuato la preminenza gerarchica di quest’ultimo, ma, com’è noto, il tema è rimasto sul tappeto e, in più, vi sono stati disegni di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario che intendevano incidere in modo rilevante sul punto, nel senso di una rigerarchizzazione interna dell’ufficio.

L’esempio è dunque rilevante perché allude alla possibile esistenza di una forma di responsabilità del sostituto nei confronti del procuratore titolare: e Zanon non allude tanto alle possibili conseguenze che in capo al sostituto “ribelle” possono derivare in termini di responsabilità disciplinare, ma piuttosto al fatto che sembra qui profilarsi una forma di responsabilità verso un soggetto, una situazione, cioè, in cui la responsabilità funziona, prima ancora che come sanzione (disciplinare o d’altra natura), come strumento conformativo di un’attività a orientamenti altrui.

Prima  e indipendentemente dal subire conseguenze (disciplinari) per l’eventuale inosservanza dei criteri o delle direttive ricevute per la trattazione dei procedimenti, il sostituto diventa responsabile nel senso che dovrebbe conformare la propria attività-particolarmente quella d’indagine-appunto ai criteri e alle direttive del capo dell’ufficio.

Si tratta di una forma di responsabilità che, come si vedrà, è di regola radicalmente esclusa dall’ambito dei rapporti tra magistrati giudicanti, (e,a fortori, dall’ambito dei rapporti tra giudici e altri poteri) perché idonea a ledere in modo irrimediabile la loro indipendenza funzionale, interna ed esterna, garantita dall’art. 101, comma2, cost. e dalla soggezione solo alla legge ivi prevista.

Se e come una tale responsabilità sia invece ammissibile e conforme ai principi costituzionali per quanto concerne il pubblico ministero resta ovviamente il tema specifico da affrontare, ma appunto in modo distinto rispetto alla questione della responsabilità dei giudici.

Secondo esempio. Come è ben noto, si discute da tempo della possibile introduzione, nel nostro ordinamento giudiziario, dei cosiddetti criteri di priorità nell’esercizio, pur sempre obbligatorio, dell’azione penale. È una questione molto controversa, che mette in tensione non solo il principio di cui all’art. 112 cost., ma, più in profondità, lo stesso principio dell’eguale soggezione di tutti alla legge penale, e sollecita anche riflessioni sul rapporto tra scelte tecniche o discrezionali, da una parte, e il tipo di legittimazione che deve vantare chi voglia compierle, in un ordinamento democratico.

Una decisione della sezione disciplinare del C.S.M. (decisione 20 giugno 1997) ebbe ad affermare che l’impossibilità di tempestivamente esaurire la trattazione di tutte le notizie di reato implica che non ci si può sottrarre al compito di elaborare criteri di priorità: criteri che, una volta scontato come irragionevole il criterio che facesse mero riferimento al caso e alla successione cronologica della sopravvenienza delle notizie, non potrebbero non derivarsi, in ossequio alla soggezione anche dei pubblici ministeri solo alla legge, dalla gravità e/o offensività sociale delle singole specie di reati. In assenza di indicazioni di priorità provenienti dal Procuratore della Repubblica-proseguiva la sezione disciplinare-sarebbe inevitabile che tali criteri siano individuati dai singoli sostituti. Ciò non suonerebbe offesa all’obbligatorietà dell’azione penale, concludeva la decisione, nei limiti in cui tale soluzione non derivi da considerazioni di opportunità relative alla singola notizia di reato, ma trovi causa nel limite oggettivo alla capacità di smaltimento del lavoro dell’organismo giudiziario nel suo complesso, e della singola Procura della Repubblica in particolare.

Come si vede, una decisione che affronta una questione di notevole rilievo e che pur essendo rimasta isolata, continua Zanon, sollecita anche una riflessione sul tipo di responsabilità che deriverebbe in capo al pm dal compimento di scelte di priorità di questo genere, nell’ambito di un ragionamento difficilmente estensibile all’attività del magistrato giudicante. Non si può infatti non pensare-a parte ogni obiezione fondata sul rispetto degli artt. 3 e 112 cost.- che la  elaborazione di criteri generali di priorità quanto alla trattazione delle notizie di reato può richiedere vere e proprie decisioni di politica criminale e giudiziaria, che possono presentarsi quali manifestazioni di una più generale potestà di indirizzo politico. E non si può non obiettare che si tratterebbe di scelte da affidare, quanto meno in prima istanza e nelle linee generalissime, ad organi politici dotati di legittimazione democratica: mentre resterebbe largamente incomprensibile il loro affidamento a magistrati reclutati per concorso, forniti di una legittimazione tecnica e non politico-democratica, e soprattutto politicamente irresponsabili. Ovvero, ragionando all’inverso, tale affidamento esigerebbe di essere affiancato da forme di responsabilità che definiamo politica, quindi del tutto inusuali per un magistrato della nostra tradizione, e comunque assai peculiari ed estranee ai ragionamenti in tema di responsabilità dei magistrati giudicanti.

Questi due esempi, e vari altri se ne potrebbero fare, mostrano che il tema della responsabilità del magistrato del pubblico ministero richiederebbe, per qualche aspetto, una distinta considerazione.

Dunque, si è appena visto, nel primo dei due esempi relativi alla responsabilità del p.m., che sarebbe possibile identificare, nei suoi riguardi, una forma di responsabilità intesa come responsabilità  verso un altro soggetto, ovvero come strumento conformativo a orientamenti altrui.

In effetti, oltre alla identificazione delle forme e dei procedimenti per farla valere, l’affermazione della responsabilità di un soggetto può preliminarmente implicare la necessità di identificare quell’altro soggetto, nei confronti del quale il primo assume responsabilità.

Ma prendere questa direzione significherebbe, a detta di Zanon, già fare una scelta molto impegnativa. È infatti possibile tracciare[12] una grande distinzione tra due tipi di responsabilità, molto diversi quanto al fine che perseguono: da una parte la responsabilità come strumento sanzionatorio di atti illeciti (attraverso misure sanzionatorie o risarcitorie), dall’altra la responsabilità appunto come strumento di conformazione di un’attività (magari lecita) a orientamenti espressi da altri. È verosimile sostenere che solo il primo tipo di responsabilità non instaura una forma di dipendenza tra il soggetto responsabile e colui a cui si risponde. Solo qui, infatti, si avrebbe a che fare con un rapporto “pienamente oggettivato”, ove conta, quale presupposto, l’esistenza di divieti normativamente imposti, la cui violazione è fatta valere da un soggetto terzo, posto in posizione disinteressata rispetto ai soggetti del rapporto. Nel secondo tipo di responsabilità, invece, può verificarsi l’esistenza di una forma di dipendenza tra il responsabile e colui in favore del quale la responsabilità è stabilita:il rapporto non è oggettivato, manca un terzo imparziale che decide della violazione di un divieto, e il soggetto nei cui confronti si risponde è anche colui al quale è rimesso il compito di far valere in concreto la subordinazione del responsabile. In particolare, il presupposto di questo tipo di responsabilità non è l’esistenza di divieti, ma l’obbligo di concordanza di orientamenti (si pensi all’esempio del rapporto tra procuratore della repubblica e sostituti).

Ora, se si considera il problema della responsabilità dei giudici, e non di altri pubblici funzionari, parrebbe necessario precisare che, bisogna necessariamente fare riferimento al primo concetto. Il secondo, infatti, evoca inevitabilmente possibili lesioni o diminuizioni del fondamentale principio costituzionale che si rapporta dialetticamente a quello di responsabilità, cioè l’indipendenza. Con riferimento ai giudici, l’art. 101, comma 2, cost. impedisce ovviamente di ragionare di una loro conformazione ad altro che non sia la legge (a prescindere qui dal significato che si intenda attribuire al termine “legge”). Perciò quando si ragiona di responsabilità civile o disciplinare dei giudici, si dovrebbe aver cura di sottolineare che se ne tratta come di strumenti e procedure che consentono, da parte di un soggetto posto in condizione di terzietà, di sanzionare oggettivamente, quindi in ossequio a ciò che la legge prevede, comportamenti o atti illeciti, senza pretendere la conformazione a orientamenti o volontà di qualche soggetto od organo o persona fisica, e senza perciò compromettere l’indipendenza del soggetto responsabile.

Nello stesso ordine di idee, ogni ragionamento sulla responsabilità politica dei giudici dovrebbe preliminarmente scontare la circostanza che essa sembra appartenere concettualmente al secondo tipo di responsabilità: giacchè l’essere responsabili politicamente sembra evocare la necessaria conformazione del soggetto responsabile alle opinioni e agli orientamenti di un altro soggetto (il popolo, l’opinione pubblica, ecc.). Ed anzi, la responsabilità politica è considerata [13]la quintessenza della responsabilità che comporta dipendenza.

D’altra parte, è anche vero che le tradizionali formule con le quali si indicano le forme di responsabilità dei giudici-fondamentalmente la responsabilità civile e disciplinare- rischiano di apparire poco espressive e comunicative, ovvero troppo burocratiche, o ancora inidonee ad indicare il ruolo che il principio di responsabilità può oggi svolgere, con riferimento al fondamentale ruolo del giudice nelle società contemporanee. Sicchè è comprensibile che si provi ad utilizzare formule diverse: così, ad esempio, in luogo di responsabilità civile, appare più appropriata la formula “responsabilità verso le parti del processo”; in luogo di responsabilità disciplinare può sembrare più espressiva o allusiva la formula “responsabilità verso l’ordine di appartenenza”o, meglio ancora, “verso l’ordinamento generale dello Stato” [14]Si tratta di formule maggiormente evocative, che mettono meglio in luce anche alcuni aspetti contenutistici dei tipi e delle forme di responsabilità che in tal modo rinominano. Per non cadere sotto il sospetto di voler sacrificare all’eccesso l’indipendenza del giudice, sono naturalmente formule che devono essere accompagnate dalla precisazione che con esse non si intende anche evocare l’aspetto conformativo ad orientamenti altrui, tipico di una forma di responsabilità come s’è visto incompatibile con la funzione giudicante.

Vi è da dire che nella nostra tradizione, una certa diffidenza nei confronti di ogni affermazione di responsabilità del giudice è probabilmente dovuta anche alla mancata distinzione tra i due menzionati tipi di responsabilità, sicchè ancor oggi pare funzionare la facile banalizzazione nell’opporre concettualmente responsabilità e indipendenza:mentre si dovrebbe considerare subito che la responsabilità come sanzione di atti illeciti non necessariamente si accompagna a dipendenza, e perciò ad una lesione dell’indipendenza.

Anche dopo l’avvento della Costituzione repubblicana, appare forte la convinzione secondo cui ogni affermazione in via normativa di una responsabilità del giudice va guardata con sospetto, in quanto idonea a metterne a rischio l’indipendenza. Ciò accade nonostante la nostra Costituzione non preveda a favore dei magistrati esplicite esenzioni da responsabilità o immunità paragonabili a quelle di altri soggetti ed organi costituzionali, ed anzi si esprima a più riprese nel senso dell’esistenza di forme di responsabilità in capo ai giudici o comunque derivanti dall’autorità giudiziaria.

Com’è noto, l’art.28 cost., pacificamente applicabile ai magistrati, afferma la diretta responsabilità dei funzionari pubblici per gli atti compiuti in violazione dei diritti, e costituisce il punto di riferimento per la normativa sulla responsabilità civile dei giudici. Dagli artt. 105 e 107 cost., inoltre, si evince che la presenza nell’ordinamento di una disciplina relativa alla loro responsabilità disciplinare costituisce una scelta costituzionalmente obbligata, che lascia margini di discrezionalità al legislatore ordinario quanto alla individuazione delle modalità attraverso le quali quella responsabilità sarà fatta valere, ma che certo non potrebbe essere azzerata o ridotta ai minimi termini.

Tuttavia, questi indici testuali sono sopravanzati da una tradizione culturale, anche (e largamente) precostituzionale, che, da un lato, ha sempre ritenuto l’affermazione di responsabilità del magistrato in potenziale contrasto con la garanzia della sua indipendenza, dall’altro, in modo ancor più radicale, ha fatto leva sulla natura esecutivo-applicativa della funzione giudiziaria per escludere che da essa potesse derivarne una qualche responsabilità.

Questa tradizione fa sentire ancora il suo peso nell’interpretazione delle norme che garantiscono l’indipendenza della magistratura nel suo complesso e del singolo magistrato nell’esercizio delle sue funzioni. Se l’art. 104, comma 1, cost. precisa che la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, è soprattutto l’art. 101, comma 2 cost., a presentarsi sulla scena carico del peso della tradizione. E nella visione tradizionale, la soggezione del giudice soltanto alla legge non solo caratterizza lo status di indipendenza del giudice nell’esercizio delle sue funzioni, non solo è sintesi efficace di gran parte dell’esperienza giuridica e istituzionale vissuta dalla cultura continentale europea post rivoluzione francese, ma ha sempre avuto un’importanza decisiva nella ricostruzione tradizionale dei rapporti tra funzione giudiziaria e responsabilità. L’art.101, comma 2, cost. sottolinea l’indipendenza del giudice, non solo da organi e poteri esterni dalla magistratura, ma anche dagli altri giudici, e disegna un rapporto diretto-non mediato da alcun altra istanza- tra il giudice e la norma da applicare, che egli interpreta e applica alla controversia da decidere. Soprattutto, nella nostra tradizione, tale disposizione rivela che l’indipendenza funzionale del giudice non equivale all’arbitrio, ma ha senso solo nell’ambito di ciò che la legge prevede. Se il giudice abbandona il terreno all’interno del quale gli è possibile sussumere sotto norme generali ed astratte la fattispecie concreta da decidere, “in tal caso non può più essere un giudice indipendente, e nessuna apparenza di giurisdizionalità può allontanare da lui questa conseguenza”[15]. Nella tradizione del costituzionalismo liberale, indipendenza del giudice e sua soggezione alla legge sono in effetti due facce della stessa medaglia: l’una non è pensabile senza l’altra. In questa visione, la legge fornisce al giudice la norma, solitamente generale e astratta, da applicare al caso concreto, e precostituisce così l’unico vincolo ammissibile alla funzione giudiziaria. Dietro alla norma, il giudice ripara dunque la propria indipendenza e su di essa fonda la propria impermeabilità ad influenze di altro genere. Ma soprattutto, dal punto di vista che più interessa, dietro alla norma e nella soggezione ad essa il giudice acquista anche, sia pur ento certi limiti, una sostanziale irresponsabilità. Se è la legge a contenere le decisioni politiche complessive, che il giudice è semplicemente incaricato di incerare nei singoli casi sottoposti al suo giudizio, la sua attività di mera applicazione non può che essere sostanzialmente esente da responsabilità. “Dove non c’è potere, non ci può essere responsabilità, dice Zanon parafrasando in negativo Lèon Deguit.

In effetti, nella tradizione costituzionale liberale l’indipendenza del giudice ha un significato opposto all’indipendenza assicurata, ad esempio, al rappresentante parlamentare nei confronti dei suoi elettori e del suo partito d’appartenenza: mentre l’indipendenza garantita al rappresentante ha lo scopo di consentirgli di svolgere una funzione eminentemente politica, l’indipendenza garantita al giudice ha esattamente la funzione opposta, quello cioè di impedirgli ogni discrezionalità politica, ogni sconfinamento da ciò che è normativamente  prestabilito dalla legge. E chi non ha discrezionalità politica non esercita potere, e quindi non può essere chiamato a rispondere. Semmai, in casi estremi, potrà essere sanzionato il suo eventuale tentativo di sottrarsi alla soggezione alla legge, attraverso interventi di tipo creativo. Detto per inciso, dimostra così di essere irrimediabilmente legata a queste tradizionali ricostruzioni quell’ipotesi di illecito disciplinare che era contenuta nelle prime versioni del progetto di legge di riforma dell’ordinamento giudiziario, facile bersaglio di molte ironie, ove si sanzionava “l’attività di interpretazione di norme di diritto che palesemente e inequivocabilmente sia contro la lettera e la volontà della legge o abbia contenuto creativo”.

Come tutti sanno, le tradizionali ricostruzioni sulla natura meramente esecutivo-applicativa dell’attività giudiziaria si fondano su una serie di presupposti e condizioni di cui è facile mostrare l’irrealismo. La legge spesso non è fatta né di comandi generali e astratti né di norme chiare, complete e facilmente interpretabili. Nei nostri ordinamenti, la legge spesso non è neanche un punto di arrivo definitivo, dal quale il giudice possa partire per determinare con sicurezza la volontà dell’ordinamento nelle fattispecie particolari:costituendo piuttosto l’esito di compromessi parziali ed imperfetti, che generano risultati non univoci, l’entrata in vigore di una legge, anziché rappresentare l’introduzione di una nuova regola dal contenuto determinato e misurabile, costituisce un punto di partenza di una “lotta” per la specificazione del suo significato, e, dunque, per la definizione della regola stessa[16]. La funzione giudiziaria e l’interpretazione non consistono –non sono mai consistite, nemmeno al tempo del code Napolèon- in operazioni di adattamento e applicazione a una particolare controversia di ciò che in astratto è stato deciso dalla legge. Nella lotta per la specificazione del significato delle regole poste dal legislatore, l’intervento applicativo e interpretativo del giudice è un momento essenziale. Il giudice non si limita ad applicare meccanicamente la decisione politica assunta in via generale dal legislatore, bensì attribuisce alla legge uno dei significati possibili (e lessicalmente tollerabili), e da questo punto di vista la sua è una vera decisione, spesso orientata da una pre-comprensione del singolo caso, alla luce di valori soggettivi. Ben lungi dal presentarsi come mera bocca  della legge, il giudice acquisisce una funzione “ordinamentale”, nel senso letterale del termine: di fronte a leggi dal contenuto non univoco o decisamente oscure, di fronte a un legislatore talvolta distratto o inadempiente, talaltra del tutto impari al suo compito, il giudice si trova, cioè, investito della formidabile funzione di provare a “rimettere ordine”, attraverso le sue decisioni, negli saparsi elementi del compromesso legislativo, ridando così unità e coerenza al diritto attraverso la sua applicazione ragionevole ai casi. Anche nei nostri ordinamenti, come in quelli di common law, il diritto di origine giurisprudenziale si affianca così, con importanza fondamentale, alla legge prodotta dagli organi a ciò legittimati.

Ma se questa è, a grandi linee, la situazione a tutti ben nota; se si da per scontato il carattere inevitabilmente “creativo” dell’attività interpretativo-applicativa della funzione giurisdizionale, se si attribuisce addirittura ad inammissibili anacronismi ogni tentativo di imbrigliarla, quale risposta è in grado di dare la nostra scienza giuridica agli interrogativi sulla responsabilità inevitabilmente connessa alla discrezionalità giudiziaria di cui si sperimenta quotidianamente l’importanza?

La frase di Duguit suonava effettivamente: “Là où est la responsabilità, là est le pouvoir”. Nel caso della funzione giudiziaria, è giocoforza riconoscere che, se ci basassimo sulle imputazioni reali di responsabilità che nel nostro ordinamento sono possibili nei confronti di tale funzione, dovremmo riconoscere che ad essa è attribuito ben scarso potere. Ma la realtà, come tutti sanno, è molto diversa. Ciò indica la presenza di un evidente squilibrio, dal cui riconoscimento occorre partire.

Se si volge in effetti l’attenzione a ciò che è normativamente previsto in tema di responsabilità del giudice, e al modo in cui tali discipline sono interpretate ed applicate, lo squilibrio di cui si diceva appare evidente.

In primo luogo, i congegni previsti dalla legge sulla responsabilità civile ne hanno determinato, secondo Zanon, la sostanziale ineffettualità.

Sarebbe certamente ingiusto non considerare che, particolarmente nel caso della responsabilità civile, il problema di fondo è conciliare la praticabilità di una responsabilità effettiva con la garanzia che l’indipendenza funzionale del giudice non si converta in una sorta di sua soggezione, o di timore reverenziale, nei confronti delle parti processuali, pronte ad inchiodarlo alle sue –purchè gravi- colpe.

È noto, perché lo ricorda la giurisprudenza costituzionale, che l’art. 28 cost. è il fondamento della responsabilità civile dei giudici. Ma si sa anche che non è facile trasporre le formule dell’art. 28 cost., e i tipi di responsabilità che esso disegna (la responsabilità diretta del funzionario e quella dello Stato), alla particolare posizione del giudice rispetto allo Stato e rispetto alla società. Egli è funzionario dello Stato-persona e però, anche, intermediario (come è stato detto da G.Zagrebelsky) tra lex e iura e quindi, in una condizione per così dire intermedia tra Stato-apparato e società. Egli è legato da un rapporto organico e da un rapporto di servizio con l’amministrazione statale ma la Costituzione garantisce la sua indipendenza funzionale e istituzionale dagli organi politici, in particolar modo dal potere esecutivo.

Ora, una scelta netta in favore della responsabilità diretta, senza filtri, del giudice nei confronti delle parti del processo accentuerebbe fortemente la sua dimensione di giudice-espressione della comunità sociale, a diretto contatto con i diritti dei soggetti privati. Una disciplina invece analoga a quella degli altri funzionari pubblici manterrebbe maggiormente l’accento sulla statualità della funzione giurisdizionale e sul rapporto organico del giudice con lo Stato apparato. Tuttavia, alla luce della giurisprudenza costituzionale, nessuno dei due modelli sembra praticabile nella sua esclusività. Da un lato, dice la Corte costituzionale, il legislatore ordinario possiede una certa discrezionalità nel regolare il rapporto tra responsabilità civile dei giudici e responsabilità dello Stato, purchè però quella dei giudici non sia totalmente esclusa (pena la violazione degli artt. 28 e 3, con riferimento alla posizione degli altri dipendenti pubblici) e quella dello Stato si estenda almeno fino al punto in cui giunge quella dei primi. Dall’altro, soprattutto nelle sentenze meno risalenti sul tema (v. particolarmente le sentt. 26 del 1987 e n. 468 del 1989), la Corte nega che il legislatore possa liberamente scegliere se applicare ai giudici una disciplina differenziata o lasciare che ad essi si applichi la comune disciplina generale in tema di responsabilità civile, affermando anzi la necessarietà, alla luce della Costituzione, di una specifica e distinta disciplina sulla loro responsabilità: una differenziazione costituzionalmente necessaria proprio in ragione della loro indipendenza.

In tutta la giurisprudenza costituzionale sul punto, la pur chiara affermazione della configurabilità e della opportunità di una responsabilità civile del magistrato, che la Corte riconosce, appare infatti nettamente condizionata dalla necessità di coniugare responsabilità e indipendenza, in un bilanciamento nel quale, tuttavia, la salvezza della seconda sembra centrale.

In una sorta di equilibrio precario, sempre a rischio di sbilanciamento a favore della tutela dell’indipendenza, il risultato cui sembra giungersi è che alla legge è consentita l’affermazione, in capo ai magistrati, di quel tanto (o di quel poco) di responsabilità che non rischi di minacciare in alcun modo la loro indipendenza. Come dice la  Corte, l’obiettivo è la conciliabilità “in linea di principio” dell’indipendenza della funzione giudiziaria con la responsabilità nel suo esercizio (Corte cost., sentenza n. 385 del 1986). Ma ciò appunto significa che, in linea pratica, ogni affermazione di responsabilità del magistrato deve confrontarsi con il significato della garanzia della sua indipendenza. Così, se pur si dice chiaramente che non sarebbe possibile una esclusione totale della responsabilità civile, perché essa condurrebbe alla violazione dell’art. 28 cost., e anche dell’art. 3 cost., in rapporto alla posizione degli altri pubblici impiegati (sent. n.1 del 1962), si è attenti a sottolineare, tuttavia, che la natura dei provvedimenti giudiziali, la stessa posizione di autonomia e di indipendenza dei magistrati possono suggerire condizioni e limiti alla loro responsabilità (sent. n.2 del 1968), condizioni e limiti sui quali si esercita l’ampia discrezionalità del legislatore ordinario.

Ancora, se indipendenza non può equivalere a immunità, ovvero se “gli artt. 101, 102, 104 e 108 cost. non valgono ad assicurare al giudice uno status di assoluta irresponsabilità pur quando si tratti di esercizio delle sue funzioni, riconducibile alla più rigorosa e stretta nozione di giurisdizione” (sent. n.385 del 1996), il legislatore ordinario è però autorizzato a prevedere meccanismi di tutela dell’indipendenza del giudice nella stessa normativa che ne afferma la responsabilità. Quando analizza la legge sulla responsabilità civile dei magistrati, la Corte si rallegra del fatto che la disciplina da questa posta sia “caratterizzata dalla costante cura di predisporre misure e cautele idonee a salvaguardare l’indipendenza dei magistrati nonché l’autonomia e la pienezza dell’esercizio della funzione giudiziaria” (sent. n.18 del 1989). Perciò, se tale legge prevede (art.4) che la domanda di risarcimento dei danni subiti-proponibile direttamente solo nei confronti dello Stato (e non del singolo magistrato, con scelta che è apparsa a molti in contrasto con gli esiti del referendum abrogativo del 1987)- sia soggetta a un controllo preliminare di ammissibilità, di tale meccanismo (sent. n. 486 del 1990) la Corte riconosce il fondamentale rilievo costituzionale. Si tratta, essa afferma, di un importante filtro della domanda giudiziale diretta a far valere la responsabilità del giudice, “perché un controllo preliminare della non manifesta infondatezza della domanda, portando ad escludere azioni temerarie e intimidatorie, garantisce la protezione dei valori di indipendenza e di autonomia della funzione giurisdizionale, sanciti negli artt. da 101 a 113 cost., nel più ampio quadro di quelle condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati che la peculiarità delle funzioni giudiziarie e la natura dei relativi provvedimenti suggeriscono”.

Qui si potrebbe peraltro subito ricordare quel che a tutti è noto, cioè che il filtro preliminare, questa sorta di autorizzazione a procedere (non più ministeriale!), di fatto, ha contribuito finora a garantire la sostanziale esenzione dei magistrati dalla responsabilità civile.

Ancora, la stessa scelta fondamentale della legge n. 117 del 1988 di proteggere la responsabilità del magistrato “dietro” a quella dello Stato, impedendo alla parte del processo di agire direttamente nei confronti del magistrato, si giustifica fondamentalmente, per la Corte, con la necessità di proteggerne l’indipendenza e la serenità nell’esercizio della funzione, che potrebbe altrimenti essere “turbata” dalla “minaccia” di un’azione di responsabilità (anche se è presente anche l’altra giustificazione: la diretta responsabilità dello Stato garantisce maggiormente la riparazione risarcitoria del cittadino che ha subito un danno ingiusto a causa dell’esercizio delle funzioni giurisdizionali).

Filtro preliminare e sostanziale inesistenza di una diretta responsabilità del giudice in caso di colpa grave[17] escono dunque assolti dalla giurisprudenza costituzionale.

Viene naturalmente da chiedersi quanto questa sorta di separatezza e di barriera tra il magistrato e la parte del processo siano in linea con l’art. 28 cost., nella parte in cui prevede che i funzionari pubblici rispondano direttamente degli atti compiuti in violazione di diritti. È ben noto come la novità di questa disposizione, sia nei lavori preparatori della costituzione, sia nella giurisprudenza costituzionale, sia stata individuata nella chiara affermazione dell’esistenza di un rapporto diretto tra funzionari e cittadini, come deve avvenire in ogni ordinamento “che mette prima gli uomini degli apparati”.

E viene anche da chiedersi se, anche in questo campo-come ormai accade in ogni settore del diritto- non bussino forte alla porte del nostro ordinamento giuridico fort cogenze europee, che potrebbero obbligarci a qualche aggiustamento. Zanon si riferisce al noto principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a riparare i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario che sono loro imputabili, principio che si applica anche allorché la violazione di cui trattasi derivi da una decisione (definitiva) di un organo giurisdizionale (da ultimo cfr. Corte di Giustizia CE, 30 settembre 2003, causa C-224/01- Gerard Koebler c. Repubblica d’Austria, in Danno e Responsabilità n.1/2004, pp. 23 ss.). Ben vero che in tale sentenza si precisa che il principio di responsabilità di cui trattasi riguarda non la responsabilità personale del magistrato, ma quella dello Stato (ciò che metterebbe al riparo il valore dell’indipendenza del giudice, dice la Corte di Giustizia); ben vero che è nell’ambito del diritto nazionale relativo alla responsabilità che lo Stato membro è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato: ma è anche vero che la giurisprudenza europea richiede che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in tema di risarcimento del danno non siano congegnato in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’ottenimento di tale risarcimento. E bisognerebbe verificare se la nostra legge sulla responsabilità civile resisterebbe ad un tale scrutinio in questa direzione. Zanon dice, riassuntivamente, che il nostro modello di responsabilità civile (una responsabilità sostanzialmente indiretta e mediata dallo Stato), a prescindere dalla sua ineffettualità, è forse coerente solo con ciò che il giudice è dal punto di vista burocratico, cioè con l’esistenza di un suo rapporto organico con lo Stato, e con il suo essere funzionario statale assunto per concorso. Ma quella separatezza e quella barriera tra giudice e parti non sono coerenti con una concezione realistica di ciò che fa nella nostra realtà il giudice, quale operatore professionale del diritto accanto ad altri operatori professionali, nell’ambito di una società, e di un mercato di utenti, che al giudice si rivolgono alla ricerca di un servizio. In particolare, a Zanon sembra altrettanto chiaro che questo modello di responsabilità sarebbe totalmente incoerente se dovesse accentuarsi la tendenza verso forme di accesso “laterali” alla funzione di giudice, attraverso l’ingresso in magistratura di professionalità eminenti di altri operatori del diritto. Per questi ultimi, che entrerebbero in magistratura non attraverso il concorso, essendo inesistente qualsiasi rapporto di immedesimazione organica con lo Stato, non avrebbe senso prevedere che la loro possibilità possa “scomparire” dietro quella dello Stato. D’altra parte, i requisiti di alta professionalità sarebbero per costoro gli stessi che per i magistrati di carriera.

La stessa Corte costituzionale (sent. n. 18 del 1989) ha instaurato un nesso stretto tra professionalità e responsabilità, giustificando la norma di cui all’art. 7, comma 3, della legge n. 117 del 1988, la quale  limita alle sole ipotesi di dolo e a specifiche ipotesi di colpa grave la responsabilità civile dei cittadini estranei alla magistratura (di cui tratta l’art. 102 cost.) che concorrono a formare o formano organi giudiziari collegiali. Da ciò si potrebbe appunto desumere, invece, che per professionalità eminenti, per le quali si abbiano forme d’ingresso “laterali” in magistratura, anche ulteriori a quelle previste nei commi 2 e 3 dell’art. 106 cost. e comunque coerenti con il principio da tali disposizioni desumibile, la responsabilità non solo non potrebbe subire limitazioni, ma –qui è appunto l’aggiunta- in carenza di rapporto organico potrebbe al contrario anche “aumentare”, anche verso forme di responsabilità realmente diretta. Dopo di che, sarebbe naturalmente da riconoscere l’incongruente coesistenza di un modello di giudice “professionale” direttamente responsabile verso le parti del processo e di un modello di giudice “funzionario”, riparato dietro la responsabilità dello Stato[18]: ma, se si arrivasse a sviluppi di questo tipo, forse vi sarebbe un effetto di trascinamento del primo modello nei confronti del secondo.

Stando così le cose nell’ambito delle responsabilità civile, è inevitabile che la responsabilità disciplinare costituisca di fatto, nel nostro ordinamento, l’unica reale forma di responsabilità attivabile nei confronti dei giudici. Ciò ha condotto ad un progressivo mutamento del suo tradizionale significato, e alla circostanza che essa ha dovuto progressivamente farsi carico di compiti e obiettivi che forse, ragionando in astratto, sarebbero stati meglio raggiungibili da una migliore disciplina della responsabilità civile.

Anche nell’ambito della responsabilità disciplinare, beninteso, l’esigenza di protezione dell’indipendenza del magistrato si fa sentire fortemente, fin dall’inquadramento definitorio del fondamento del potere disciplinare. Così, tale fondamento, dice la Corte, non può essere ricercato “come per gli impiegati pubblici, nel rapporto di supremazia speciale della pubblica amministrazione verso i propri dipendenti, dovendosi escludere un rapporto del genere nei riguardi dei magistrati stessi sottoposti soltanto alla legge ex art. 101 cost.” (sent. 100 del 1981).

Quello della tutela dell’indipendenza è un’esigenza che si fa sentire fin nelle pieghe del procedimento disciplinare, al quale la giurisprudenza costituzionale tende bensì ad attribuire caratteri vicini a quello giurisdizionale, ma proprio e solo in funzione di una più rigorosa tutela dell’indipendenza del singolo magistrato (ad es. sent. n.12 del 1971). Così, anche la dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 34 comma 2, r.d.l. 31 maggio 1946, n.511, nella parte in cui esclude che il magistrato sottoposto a procedimento disciplinare possa farsi assistere da un avvocato del libero foro, viene motivata con la necessità di assicurare al meglio l’indipendenza del magistrato:”con riferimento ai magistrati l’esigenza di una massima espansione delle garanzie difensive si fa, se possibile, ancora più stringente, poiché nel patrimonio dei beni compresi nel loro status professionale vi è quello dell’indipendenza” (sent. n. 497 del 2000).

Al di là di questo aspetto, va riconosciuta una sorta di inevitabile funzione di supplenza che la responsabilità disciplinare ha svolto nei confronti di quella civile. Supplenza che sembrava addirittura codificata nel ddl 160/06 c.d. “Castelli” di riforma dell’ordinamento giudiziario, almeno nelle parti in cui configurava, quali ipotesi di responsabilità disciplinari, fattispecie simili, o parzialmente simili, a quelle dell’art.2, comma 3, della legge 117 del 1988, ove si specificano le ipotesi di colpa grave che danno luogo appunto a responsabilità civile del giudice (si veda ad esempio la “grave violazione di legge determinata da ignoranza o da negligenza inescusabile”, che si trovavano appunto nel ddl c.d. “Castelli”).

In verità, si tratta qui di una razionalizzazione della giurisprudenza della stessa sezione disciplinare, la quale, riconoscendo di non poter sindacare l’interpretazione della legge, afferma però di poter sindacare il comportamento di chi l’ha preceduta o accompagnata, sanzionando in essa un’eventuale negligenza inescusabile o un’ignoranza. Si è in sostanza in presenza della codificazione di orientamenti, pur cauti, già presenti nella giurisprudenza disciplinare.

Una funzione di supplenza, comunque, che ha anche contribuito, in termini assai positivi, a modificare in parte la natura della stessa responsabilità disciplinare:essa appare oggi non più solo lo strumento di tutela dei valori e dell’immagine di una corporazione “chiusa”, ma anche lo strumento attraverso il quale, almeno in parte e indirettamente, vengono tutelate le esigenze e i diritti dei cittadini, intesi come utenti del servizio-giustizia. Come bene afferma la Corte costituzionale (ancora nella sentenza n. 497 del 2000), “il regolare e corretto svolgimento delle funzioni giudiziarie e il prestigio della magistratura investono il momento della concretizzazione dell’ordinamento attraverso la giurisdizione, vale a dire l’applicazione imparziale e indipendente della legge. Si tratta perciò di beni i quali, affidati alle cure del Consiglio superiore della Magistratura, non riguardano soltanto l’ordine giudiziario, riduttivamente inteso come corporazione professionale, ma appartengono alla generalità dei soggetti e, come del resto la stessa indipendenza della magistratura, costituiscono presidio dei diritti dei cittadini”.

Come esempio di una giurisprudenza disciplinare sempre più attenta alle esigenze di efficienza del servizio reso ai cittadini è possibile ricordare quella relativa alle sanzioni inflitte per il ritardo nei depositi dei provvedimenti giudiziari da parte del giudice, o quella che considera legittima la sanzione disciplinare al magistrato che redige poche sentenze, prediligendo i casi più semplici o quelli risolvibili attraverso la ripetizione seriale dei medesimi dispositivi (cfr. di recente Cass. SS.UU. civili, sentenza 20.09.2003, n.14487).

Poste queste generiche premesse, si tratta di individuare gli elementi dai quali potrebbe dipendere un’evoluzione della responsabilità disciplinare in questa direzione, elementi che sono peraltro gli stessi potenzialmente idonei, se sviluppati in altra direzione, di determinare tutt’al contrario una conservazione degli originari caratteri della responsabilità disciplinare.

A Zanon pare che, a questo scopo, si possa concentrare l’attenzione su alcuni aspetti critici della disciplina e della prassi in tema di responsabilità disciplinare. Tali aspetti riguardano: a)la natura stessa della responsabilità disciplinare, b)la questione della tipizzazione degli illeciti; c)il ruolo dell’azione disciplinare ministeriale.

Si tratta di tre aspetti fortemente collegati tra loro.

Sul primo aspetto, anche alla luce della affermazione della Corte costituzionale appena riportate, Zanon concorda con le visioni che, sulla base di un’analisi complessiva del disegno costituzionale in tema di ordine giudiziario, affermano come la responsabilità disciplinare debba essere considerata come una responsabilità non verso l’ordine di appartenenza-una responsabilità nei confronti della corporazione, quindi- ma piuttosto come una responsabilità che il magistrato assume verso l’ordinamento generale dello Stato. Non è questa la sede per riportare gli argomenti che la dottrina ha addotto per argomentare che la responsabilità disciplinare non è lo strumento attraverso il quale l’ordine giudiziario conforma i comportamenti dell’ordine giudiziario in un’ottica corporativa[19]. Conta soprattutto che, tra le conseguenze rilevanti di questa ricostruzione, vi sia quella per cui non dovrebbe spettare allo stesso Consiglio superiore della magistratura la sostanziale individuazione degli illeciti disciplinari, in via paranormativa o pretoria.

Questa affermazione presuppone che le riserve di legge di cui all’art. 105 e all’art. 108 (ed anche all’art.107, per la parte in cui sia pertinente alla materia disciplinare, ciò che accade laddove l’illecito comporti una sanzione espulsiva o suscettibile di incidere sulla stabilità nella sede o nelle funzioni) siano riserve assolute, anche nei confronti del C.S.M.[20]. La ratio che accomuna tali riserve, in altre parole, dovrebbe essere non solo quella genericamente garantista, ma anche quella, ben nota, di non consentire la creazione di un apparato giudiziario separato dall’ordinamento generale dello Stato. Ne dovrebbe conseguire una chiara ripartizione di compiti: al legislatore l’individuazione degli illeciti disciplinari, al C.S.M. l’applicazione dei provvedimenti disciplinari (come prevede l’art. 105 cost.), a seguito della valutazione del comportamento del magistrato alla luce di ciò che è previsto dalla legge.

Come è noto, invece, la situazione è ben diversa. L’art. 18 r.d. lgs. N.511 del 1946 prevede infatti che sia soggetto a sanzioni disciplinari “il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga in ufficio o fuori una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario”. La definizione legislativa dell’illecito disciplinare è così vaga e generica da richiedere necessariamente un’attività di “riempimento”che, allo stato, non può che essere svolta che dal Consiglio superiore.

Attraverso questa attività di  definizione e concretizzazione degli illeciti, il C.S.M. finisce per individuare anche, in termini generali, quali obiettivi vengano perseguiti dalla responsabilità disciplinare e, in ultima analisi, attraverso un controllo sui comportamenti, quale modello di magistratura e di magistrato debba prevalere nel nostro ordinamento. Riprendendo la distinazione prima fatta fra responsabilità come soggezione ad una volontà altrui e responsabilità come sanzione, Zanon sottolinea che il potere conformativo sull’attività giudiziaria che in tal modo viene attribuito al C.S.M. si ricollega al primo tipo di responsabilità, che è quello meno conforme alla tutela dell’indipendenza del giudice.

La Corte di Cassazione ha bensì precisato che, nella determinazione degli illeciti, la Sezione disciplinare non svolge un’attività creativa, ma un’attività ermeneutica, dovendo ogni volta interpretare sistematicamente l’art. 18 cit. con le altre norme dell’ordinamento generale dello Stato. Però ha anche chiarito che tra queste norme trovano spazio non solo la Costituzione e le altre fonti statali, ma anche le fonti paranormative approvate dallo stesso C.S.M., nonché i precedenti della sezione disciplinare (e della stessa Cassazione: cfr. Corte di Cassazione, sez. un. civ., sentenza 20 novembre 1998, n.11732, in Foro it.,1999, I, 871).

Ne consegue, inevitabilmente, nella giurisprudenza della sezione disciplinare, il parziale perdurare di una visione “corporativa” nella “scelta”degli illeciti da perseguire: così,ad esempio, anche di fronte all’evidente violazione di un dovere d’ufficio, accade infatti che la sanzione venga irrogata solo previa dimostrazione che la condotta del magistrato ha provocato, quale evento percepibile dall’esterno, una lesione alla credibilità del singolo magistrato o al prestigio dell’ordinamento giudiziario. La punibilità della violazione è dunque esclusa quando da essa non scaturisca un’apprezzabile ricaduta negativa sul prestigio dell’ordine. In questa configurazione dell’illecito di danno al prestigio dell’ordine, si mostra ancora all’opera una visione corporativa[21].

A maggior ragione, allora, esiste uno stretto legame tra la qualificazione della responsabilità disciplinare come responsabilità verso l’ordinamento generale dello Stato, da una parte, e la predeterminazione per legge degli illeciti disciplinari. Si sottolinea “per legge”, perché, come si vedrà, è possibile distinguere tra predeterminazione in sé e predeterminazione per legge[22].

Ora, la tipizzazione degli illeciti è stata spesso auspicata in dottrina, come soluzione che potrebbe meglio garantire l’indipendenza dei giudici, e non c’è dubbio che essa impedirebbe che agli organi titolari dell’iniziativa disciplinare del C.S.M., finisca per essere affidato il compito di decidere, caso per caso, quali comportamenti meritino di essere sanzionati.

Conoscere in anticipo gli atti e i comportamenti disciplinarmente rilevanti è una garanzia del magistrato. Inoltre,anche il controllo della Corte di Cassazione sulle decisioni della sezione disciplinare ne acquisirebbe sostanza, giacchè invece, attualmente, il sindacato di legittimità sul modo in cui è applicato l’art. 18 r.d. lgs. n.511 del 1946-come afferma la stessa Cassazione (sez. un. civ. 18 gennaio 2001, n. 5, in Foro it., 2002, 1186)- “non può prescindere (…) dal fatto che detta norma contiene, per la definizione delle condotte sanzionabili, concetti e categorie giuridici indeterminati. Non fornendo la norma, per sua intrinseca natura, elementi tassativi per la definizione delle condotte disciplinarmente illecite, il sindacato di legittimità sulla sussunzione non può non tenere conto del fatto che la categoria normativa impiegata finisce con l’attribuire al giudice di merito un compito di individuazione concreta delle condotte sanzionabili, rispetto al quale non può ammettersi una sostituzione da parte del giudice di legittimità”.

Ma, oltre a questi aspetti, Zanon insiste sul fatto che  la tipizzazione degli illeciti per legge si giustifica soltanto una volta definitivamente accettata l’idea della responsabilità disciplinare come responsabilità non corporativa, non verso l’ordine d’appartenenza. Se, al contrario, si è legati all’idea della responsabilità disciplinare come responsabilità verso l’ordine d’appartenenza, è del tutto accettabile che il potere disciplinare, solo genericamente fondato sulla legge, si dispieghi attraverso un potere di concretizzazione interamente affidato, sia agli organi titolari dell’azione disciplinare, sia-soprattutto- alla sezione disciplinare del C.S.M. Si badi che se la giustificazione della tipizzazione fosse solo la tutela della indipendenza dei giudici, con tutto quel che essa comporta in termini di prevedibilità e di certezza, ebbene anche in questo caso sarebbe sufficiente una tipizzazione interamente affidata al C.S.M., attraverso atti paranormativi o attraverso i suoi precedenti. Invece, la tipizzazione per legge degli illeciti, si giustifica completamente proprio e soltanto attraverso l’idea della natura della responsabilità disciplinare come responsabilità verso l’ordinamento generale dello Stato.

Naturalmente, appartiene alla peculiarità della materia disciplinare l’impossibilità di prevedere ogni illecito, attraverso un elenco tassativo di fattispecie. Ne deriva che la tipizzazione per legge non esclude la presenza, altamente opportuna, di norme di chiusura. Già nella Relazione della Commissione presidenziale per lo studio dei problemi concernenti la disciplina e le funzioni del Consiglio superiore della Magistratura (in Giur. Cost.,1991, p.1005) si era notato che le infrazioni tipizzate, previste in elenchi di illeciti in cui figurino norme di chiusura generali, assumono un chiaro valore di clausole interpretative di queste ultime, concorrendo a chiarire quali possano essere gli ulteriori comportamenti suscettibili di sanzione disciplinare: e se ne concludeva che, anche in presenza di norme di chiusura, una certa tassatività degli illeciti viene conseguita.

Per questo aspetto, a prescindere dalle discussioni che ovviamente possono svolgersi sul contenuto di alcune fattispecie disciplinarmente rilevanti, il ddl Castelli conteneva una scelta meritoria.

Nel solco delle considerazioni sin qui fatte, acquista la sua corretta dimensione anche la previsione costituzionale in base alla quale il Ministro della giustizia è titolare del potere di promuovere l’azione disciplinare. Non si tratta di un compito collegato alle funzioni che pure la stessa Costituzione attribuisce al Ministro, all’art. 110, in tema di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Si tratta invece di una situazione coerente all’idea della responsabilità disciplinare come responsabilità verso l’ordinamento generale dello Stato. Poiché il Ministro non è espressione dell’ordine giudiziario e non può essere portatore degli interessi di questo, ne esce confermata la tesi per cui il promuovimento ministeriale dell’azione disciplinare è invece il canale attraverso il quale lo stesso ordinamento generale dello Stato è messo nelle condizioni di controllare il comportamento disciplinare dei giudici.

Si osservi che qui non dovrebbe essere questione della tradizionale diffidenza nei confronti del potere esecutivo, “nemico tradizionale dell’ordine giudiziario”: in un quadro complessivo in cui la Costituzione affidi alla legge le predeterminazione e la tipizzazione degli illeciti, non vi è allarme se l’esercizio dell’azione disciplinare sia affidato al Ministro della giustizia, il quale risponderà di fronte al Parlamento del modo in cui avrà esercitato le sue funzioni. È proprio la tipizzazione per legge a porsi come cruciale: se essa vi è, è evidente che il tema della responsabilità disciplinare non si esaurisce in un rapporto, tendenzialmente conflittuale, tra potere esecutivo e potere giudiziario. La tipizzazione per legge consente, da un lato, che la responsabilità disciplinare si allontani da una forma di giustizia interna e corporativa, ma anche, dall’altro lato, impedisce che sia il Ministro della giustizia ad individuare, volta per volta, in totale discrezionalità, i comportamenti disciplinarmente rilevanti.

Infine, anche la responsabilità ministeriale di fronte al Parlamento acquisterà maggiore nettezza di contorni, in presenza della tipizzazione per legge, che precostituisce le linee di azione del Ministro.

In coerenza a tale ricostruzione andrebbe inquadrata la previsione, contenuta nell’art.14 della legge n.195 del 1958, dell’estensione della titolarità dell’azione disciplinare anche al procuratore generale presso la Corte di Cassazione. L’unico modo coerente di leggere tale previsione è quello di ritenere che l’estensione in questione sia stata fatta in quanto il Procuratore generale è pubblico ministero presso la sezione disciplinare, non in quanto membro del C.S.M.[23].

I problemi, naturalmente, non finiscono qui. Va detto infatti che la tipizzazione deporrebbe per la trasformazione, da facoltativa in obbligatoria, dell’azione disciplinare. Trasformazione sulla quale si è molto discusso, in passato, e che  il ddl Castelli effettivamente realizzava, ma naturalmente per la sola parte sulla quale può incidere una fonte primaria, stabilendo che il Procuratore generale presso la Cassazione ha l’obbligo di esercitare l’azione disciplinare.

Resta naturalmente ferma, stante la previsione dell’art. 107 cost., la facoltà del Ministro di promuovere l’azione, mediante richiesta d’indagini al Procuratore generale. Il discorso si fa qui complesso, e c’è un problema di coerenza delle diverse tesi che sul punto si possono sostenere. La facoltatività dell’azione disciplinare ministeriale parrebbe in effetti presentarsi, nell’ambito della ricostruzione qui proposta, come un elemento di  parziale incoerenza. Si potrebbe in primo luogo dire che la ragione di questa scelta è che la legge, in quanto fonte ordinaria, deve arrestarsi di fronte all’art. 107 cost. Tuttavia, va anche riconosciuto che qualsiasi sottolineatura della responsabilità politica ministeriale in tema di azione disciplinare, che Zanon non giudica in modo negativo, sembra presupporre che tale azione resti facoltativa: solo configurata così, e quindi frutto di decisione discrezionale supportata da valutazioni di opportunità politica, l’azione disciplinare parrebbe porsi come fonte di una reale responsabilità politica del Ministro (o dell’intero Governo, secondo alcune ricostruzioni) di fronte al Parlamento, e le modalità attraverso le quali essa viene esercitata, potrebbero a loro volta  considerarsi alla stregua di indizi utili all’identificazione di una particolare “linea politica”nella gestione del ministero. D’altra parte, è anche vero che, in presenza della previsione di esercizio obbligatorio dell’azione disciplinare da parte del Ministro, una sua responsabilità politica si avrebbe ugualmente, quanto meno in caso di accertata omissione o di inerzia, pur in presenza dei presupposti legali per agire.

In ogni caso, a Zanon sembra che, di fronte alle previsioni del ddl Castelli, in cui coesistono facoltatività dell’azione ministeriale e obbligatorietà dell’azione disciplinare del Procuratore generale, il risultato finale cui si giungeva inevitabilmente era quello-non si sa quanto consapevolmente perseguito dal legislatore- di una diminuizione di responsabilità politica sul punto, giacchè difficilmente egli potrebbe essere chiamato a rispondere politicamente di un’attività dovuta altrui[24].

Come è noto, uno degli aspetti cruciali del dibattito che si è svolto sul proposito del ddl Castelli ha riguardato una delle ipotesi originariamente previste di illecito disciplinare, quella che sanzionava “l’attività di interpretazione di norme di diritto che palesemente e inequivocabilmente sia contro la lettera e la volontà della legge o abbia contenuto creativo”. Tale norma si concludeva, peraltro, con l’affermazione che non poteva dar luogo a responsabilità disciplinare “l’attività di valutazione del fatto e delle prove”. Ora, come si sa, il vigente art. 2, comma 1, della legge n. 117 del 1988, in tema di responsabilità civile, stabilisce che nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività d’interpretazione di norme di diritto, né quella di valutazione del fatto e delle prove. E la stessa giurisprudenza disciplinare, come si è già ricordato, esclude che l’attività d’interpretazione sia fonte di responsabilità disciplinare.

Il mutamento di prospettiva, se una norma disciplinare come quella prima ricordata fosse stata approvata, sarebbe stato ovviamente radicale. La disposizione suscitò facili ironie sulla pretesa “giacobina” di imbrigliare l’attività interpretativa e fu sostituita, in un ulteriore disegno di legge, poi cristallizzato nel ddl 160/06 con quella secondo cui “non può dar luogo a responsabilità disciplinare l’attività di interpretazione di norme di diritto in conformità all’articolo 12 delle disposizioni sulla legge in generale”.

In ogni modo,come già si è visto, il ddl Castelli è stato superato dalla legge Mastella che ha tutt’altra impostazione  e che esclude sanzioni disciplinari in riferimento ad attività interpretative. Ma una riflessione sul tentativo che fu posto in essere, di limitare l’attività d’interpetazione, va comunque svolta.

È noto che la distinzione tra attività interpretativa insindacabile, consistente nell’attribuire alla disposizione uno dei possibili significati, e colpa grave per violazione inescusabile di legge, sussistente nel caso in cui il magistrato adotti un’interpretazione estranea a quel ventaglio di possibilità, costituisce un problema di non facile soluzione, che sempre si è posto a coloro che hanno dovuto indagarlo al fine di riconoscere o di escludere una responsabilità civile del giudice. In giurisprudenza, è stata a questo fine accolta una nozione molto ampia di ciò che è attività creativa. È interpretazione di norma di diritto, si legge in qualche sentenza (ad es. Corte d’appello di Brescia, decreto 13 aprile 1990, in Foro it.,1990, I, 2008, che conferma il Tribunale di Brescia, decreto 17 febbraio 1990, in Foro it.,1990, I, 2014), anche quella che assegna alla proposizione normativa il significato “meno probabile”, “il più distante dai principi generali dell’ordinamento giuridico”, purchè tale significato appartenga “all’arco di quelli strettamente possibili alla stregua del senso comune dei segni linguistici”. Se questo è l’esito, non appare, a prima vista, del tutto implausibile ripiegare, per configurare una responsabilità, sui casi in cui vi sia stato l’utilizzo errato delle regole sull’interpretazione. Con una prima precisazione: nell’attuale legge sulla responsabilità civile, è pur sempre necessario che l’errore sulle regole d’interpretazione determini una grave violazione di legge, mentre nel ddl Castelli la responsabilità disciplinare sembrava apparentemente conseguire dal solo mancato rispetto delle comuni regole d’interpretazione di cui all’art. 12 delle preleggi, vista come fattispecie disciplinare autonoma. E con una seconda, fondamentale, precisazione: sanzionare disciplinarmente un magistrato per uno scorretto uso delle regole sull’interpretazione è difficilissimo, sia perché a loro volta tali regole vanno… interpretate, sia perché, almeno nel nostro ordinamento, non esiste un rapporto gerarchico tra i tipi di interpretazione, sia, infine, perché le regole sull’interpretazione servono a limitare, ma non ad impedire, nuove interpretazioni. Come anche si sostiene dalla dottrina che si è occupata del problema nell’ambito della responsabilità civile, è piuttosto sull’elemento della negligenza inescusabile che si può agire per giungere a risultati soddisfacenti e non implausibili. Così, ad esempio, nel caso di scuola in cui un giudice motivi la decisione del caso attraverso un’interpretazione in senso retroattivo di una disposizione, disattendendo la regola interpretativa di cui all’art. 11 delle preleggi, la sua responsabilità conseguirebbe non già ad una violazione delle regole dell’interpretazione, ma dall’inescusabile negligenza di non conoscere questa regola di interpretazione. Insomma, si comprende bene come la questione di fondo che tormentava il precedente legislatore fosse costituita dal problema dei confini dell’attività giudiziaria, il desiderio di riaffermare un limite oltre il quale la libertà interpretativa del giudice diventa vera e propria usurpazione di altre funzioni. L’art. 6, lettera c, n. 9 del ddl Castelli, prevedeva che, avrebbe dovuto costituire illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni “l’adozione di provvedimenti abnormi ovvero di atti e provvedimenti che costituiscano esercizio di una potestà riservata dalla legge a organi legislativi o amministrativi ovvero ad altri organi costituzionali”.

A parte la fattispecie dei provvedimenti abnormi, sulla quale esiste un’ampia giurisprudenza della sezione disciplinare, si tratta di una disposizione che, sotto l’apparenza di tratteggiare una fattispecie disciplinare, poneva un problema costituzionale.

Ed anzi, al di là dell’immiserimento della questione in termini disciplinari, si trattava di una norma che poneva il problema di quella che Zanon ha definito una responsabilità “costituzionale” del giudice, di fronte al Parlamento, a causa dell’attività interpretativa svolta.

È una questione che ricorre negli scritti di Riccardo Guastini, il quale afferma esplicitamente che la soggezione del giudice alla legge, di cui all’art. 101, comma 2, cost. non è per nulla incompatibile con una qualche forma di controllo degli organi legislativi sull’attività giurisdizionale[25]. Scontate le critiche che si possono avanzare a questa tesi[26], il problema è quello di comprendere in che modo il Parlamento potrebbe far valere la responsabilità di un giudice. Un’ipotesi, in linea con la tradizione e con ciò che molte avviene di fatto, è quella del ricorso alla legge d’interpretazione autentica, per impedire all’attività giurisdizionale di percorrere sentieri interpretativi non graditi al legislatore. Zanon sottolinea che la disposizione del ddl Castelli non faceva che declinare-a suo avviso inopportunamente in termini di responsabilità disciplinare- un’ipotesi in cui sarebbe in astratto possibile configurare un conflitto di attribuzioni tra poteri dello stato, addirittura nei tradizionali termini di vindicatio potestatis. Per Zanon, la disposizione legislativa in questione poteva addirittura ritenersi superflua, al cospetto dell’art.134 cost. e degli artt. 37 ess. Della legge n.87 del 1963 (o addirittura incompatibile con tali ultime norme): anche se fa riflettere il riferimento testuale alla lesione di potestà riservate “dalla legge” a organi legislativi o amministrativi ovvero ad altri organi costituzionali, come se si volesse consapevolmente (ma per Zanon incongruentemente!) escludere qualunque “tono costituzionale” nella lesione che deriva dall’adozione di atti o provvedimenti giudiziari dei questo genere.

Per Zanon una norma simile costituiva soprattutto un a”norma bandiera” in relazione ad un certo clima culturale. Tra gli operatori del diritto e la dottrina, anche quella costituzionale, è ormai invalso, quale atteggiamento dominante, quello di considerare con sufficienza l’attività legislativa e i suoi prodotti normativi, e, allo stesso tempo, di valutare con una certa preconcetta ammirazione l’attività giudiziaria e i suoi prodotti interpretativi, di qualunque genere e qualità essi siano.

Si assiste talvolta alla teorizzazione consapevole di concezioni quasi “paternalistiche”dei processi di creazione e formazione delle regole giuridiche. In esse, la pretesa superiorità del diritto di formazione giurisprudenziale viene argomentata ora sulla base della sua estraneità alle miserie di una politica generalmente mal considerata e giudicata, ora in virtù di qualità intrinseche di razionalità e professionalità incontestabilmente maggiori di quelle invocabili a favore delle scelte legislative, tacciabili di inevitabile dilettantismo. Una sorta di “paternalismo giurisdizionale”, insomma, nutrito di profonda diffidenza verso la legge perché nutrito di profonda diffidenza verso il legislatore, per definizione in balìa di maggioranze irrazionalmente mutevoli ed emotive, e naturalmente privo, rispetto alle materie da regolare, della indispensabile consapevolezza tecnica, posseduta invece da tutti i veri professionisti del diritto (tra i quali i magistrati, certo, ma anche i professori, i tecnici, i “sapienti”).

Un atteggiamento, questo, cui certamente parte della produzione legislativa può invogliare, ma che, ad avviso di Zanon, è eccessivo se assunto programmaticamente a guida e criterio di fondo, perché porta a trascurare le ragioni della legge e del legislatore, e annulla e trascura del tutto una qualità, allo stesso tempo procedimentale e sostanziale, che ancora non è del tutto scomparsa nella legge: quella di scaturire da un procedimento di formazione pubblico e trasparente, che si svolge in Parlamento e potenzialmente al cospetto dell’opinione pubblica, e che coinvolge l’intera rappresentanza politica, composta da maggioranze e minoranze[27].

Aggiunge Zanon che, su una questione molto vicina a quella affrontata dalla disposizione in questione del ddl Castelli, la dottrina costituzionale ha particolarmente approfondito la ricerca dei limiti all’attività d’interpretazione autentica del legislatore, in funzione della tutela della libertà interpretativa del giudice. E a questo scopo ha anche ipotizzato (lo stesso Zanon l’ha fatto in passato) la praticabilità di strumenti, quali il conflitto di attribuzione tra poteri sollevato dal giudice nei confronti del Parlamento, che permettano di ricondurre nel suo ambito il legislatore d’interpretazione autentica[28].

Bisogna aggiungere che, forse, sarebbe opportuna altrettanta energia ed attenzione alla ricerca dei limiti uguali e contrari, cioè dei confini che l’attività interpretativo-creativa del giudice non può oltrepassare senza invadere la sfera di attribuzione del legislatore. L’esperienza pratica del nostro ordinamento conosce varie vicende istruttive in questo senso: ad esempio, chi ripercorra la storia del c.d. danno biologico non può che rimanere impressionato dal grado di creatività delle sentenze della Corte di cassazione e della Corte costituzionale che l’hanno caratterizzata, un grado di creatività cui certo le Corti sono state coartate dall’inerzia del legislatore, ma che non cancella il problema. In questo ed in altri possibili esempi, non si tratterebbe tanto di contestare l’opportunità delle soluzioni escogitate, spesso del tutto conformi al senso di giustizia, quanto di porre il problema del soggetto competente ad escogitarle. E se si ipotizza, coma Zanon fa, che un Parlamento che ne abbia la volontà sollevi nei confronti di un giudice, nelle ipotesi-limite in cui il provvedimento giurisdizionale possa essere ritenuto invasivo della sfera di attribuzioni del legislatore, ciò servirebbe almeno a riportare sul terreno propriamente costituzionale una questione che il ddl Castelli immiseriva in termini di responsabilità disciplinare (del resto, qualche ipotesi simile ha trovato accesso di fronte alla Corte costituzionale, non in conflitti tra Parlamento nazionale ed organi giudiziari, ma in conflitti tra enti sollevati da Regioni che lamentavano come una pretesa attività interpretativa giudiziaria avesse portato alla illegittima disapplicazione di leggi regionali: cfr. la ben nota sent. 285 del 1990, che dichiara non spettante alla Corte di cassazione il potere di disapplicare una legge regionale, e annulla la relativa sentenza; ma si veda di recente la ben diversa soluzione data ad un conflitto simile dalla sentenza n. 276 del 2003).

In fin dei conti, lo strumento del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato è presente nella nostra Costituzione proprio a questi scopi, e può ben servire a regolare i rapporti tra legislativo e giudiziario, purchè si abbia cura di precisare che esso può funzionare in entrambi i sensi, non solo come tutela dell’attività interpretativa del giudice contro le invasioni del legislatore.

L’obiezione forte a questa soluzione, che Zanon si fa da solo, è semmai che questo strumento appare contraddittorio rispetto alle premesse da cui muove, perché finisce per rimettere la decisione sui rispettivi confini dell’attività legislativa e giudiziaria ad un… giudice, sia pur sui generis, il quale a sua volta farà uso delle sue arti ermeneutiche…

Ma sarebbe già qualcosa di meglio rispetto alla soluzione che si individuava nel ddl Castelli, il quale, come detto, immiseriva in termini di responsabilità disciplinare una questione di ordine costituzionale, che non dovrebbe neanche figurare in un codice degli illeciti, ma è invece presupposto stesso della divisione dei poteri in una democrazia liberale. In particolare, la questione da considerare sarebbe quella della conformità all’art. 134 cost. di una norma che sancisce una responsabilità disciplinare per lesione di “potestà” di altri organi costituzionali. Conformità che si avrebbe solo interpretando tale disposizione nel senso che l’inflizione della responsabilità disciplinare non potrebbe che seguire al riconoscimento che effettivamente l’atto o il provvedimento giudiziario abbia costituito esercizio di una potestà che “la legge” (ma perché non la stessa Costituzione?) riserva a organi legislativi o amministrativi, attestazione che Zanon crede non possa dipendere da un a valutazione del Ministro della giustizia o del Procuratore generale, ma dovrebbe conseguire proprio a una sentenza della Corte costituzionale, resa in seguito a un ricorso per conflitto.

Non sono mancati, in passato, i tentativi di rintracciare nella stessa Costituzione indizi circa la possibilità di sottoporre i giudici a forme di responsabilità politica. In termini un poco semplificatori, il riconoscimento della praticabilità di forme di responsabilità politica del giudice pare a taluno conseguente al riconoscimento del ruolo fondamentalmente creativo dell’attività giurisdizionale[29].

Si dovrebbe precisare che, tra queste forme di responsabilità, corretto sarebbe semmai solo il riferimento alla responsabilità politica che si definisce diffusa, essendo intuitivo che la responsabilità politica istituzionale è fondamentalmente incompatibile con l’assetto costituzionale della magistratura e le garanzie della sua indipendenza.

Secondo alcune opinioni, l’art. 111, comma 1, cost. richiedendo che tutti i provvedimenti siano motivati, non solo permette l’assoggettamento di tali provvedimenti agli ordinari controlli endoprocessuali, ma allude anche ad una funzione extra-processuale della motivazione, in base alla quale i provvedimenti giurisdizionali sembrano implicitamente esposti a qualche forma di controllo critico esterno da parte della pubblica opinione, con correlativa soggezione dei loro autori a una qualche forma di responsabilità “politica”, appunto diffusa.

Secondo altre opinioni, che fanno leva sull’inserimento della giurisdizione nel circuito democratico disegnato dalla Costituzione, anche a partire dall’art. 101, comma 1-secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo- sarebbe possibile affermare una responsabilità politica dei magistrati [30], anche qui attraverso l’affermazione di un controllo esercitato sull’operato dei giudici da parte dell’opinione pubblica, delle associazioni, dei partiti, ecc.

Zanon, invece, sostiene che, la formula “in nome del popolo”ha esattamente il significato opposto. Per spiegare cosa intende, riporta una citazione tratta dal Commento allo Statuto del Regno di Racioppi e Brunelli (Vol. III, Torino 1909, pp. 427-428) che si occupa di commentare l’art. 68 dello Statuto, ove si diceva che la giustizia emana dal re “ed è amministrata in suo nome dai giudici”: “sostanzialmente (…) il dire che la giustizia è esercitata in nome del Re, vale quanto il dire ch’essa non è esercitata per comando o a norma delle disposizioni del Re come invece avviene delle funzioni esecutive, nelle quali i pubblici ufficiali sono tenuti appunto a seguire le disposizioni e istruzioni ad essi rivolte dal Re pel tramite dei Ministri responsabili. È per conseguenza un riconoscere ed affermare che il Giudiziario non riceve ordini dal Re né dai Ministri di lui sul se o sul come applicare una data legge; ma adempie la sua funzione con piena indipendenza, secondo la propria scienza e coscienza (…) Inoltre, l’espressione in esame è anche una proibizione che la giustizia possa essere esercitata dal Re personalmente. Infatti il dire “è esercitata in nome del Re” equivale a dire, in realtà, che altre persone devono sempre rendere giustizia indipendentemente dalle influenze regie. Adunque codesta frase statutaria non nega, ma afferma anzi vividamente l’indipendenza del Giudiziario”.

Passando dall’art. 68 dello Statuto all’art. 101, comma 1 della nostra Costituzione, il significato della formula “in nome di” non muta. Basta sostituire il popolo al Re, ma la barriera costruita da quella formula, ad avviso di Zanon, resta ferma. Dire che la giustizia è amministrata in nome del popolo significa esattamente creare una barriera tra popolo e funzione giurisdizionale: la democrazia resta pur sempre il fondamento ultimo della stessa funzione giurisdizionale, come di ogni funzione pubblica, ma la funzione dei giudici non è soggetta, né direttamente né indirettamente, alle regole costituzionali che caratterizzano il circuito democratico e che prevedono la legittimazione popolare di ogni funzione politicamente rilevante. Non è il consenso popolare a porsi come misura di legittimazione delle modalità attraverso le quali si esercita la funzione giurisdizionale: ed anzi, si potrebbe dire che tale funzione sta realmente altrove rispetto ai luoghi in cui il consenso (ma attenzione, anche il dissenso!) del sovrano democratico si manifesta.

Nessuno nega la ovvia soggezione dei provvedimenti giudiziari alla libera critica di chiunque: individui, associazioni, partiti, aziende, ecc. Ma resta qui valido, ad avviso di Zanon, ciò che scriveva nel 1982[31] G.Zagrebelsky: conoscibilità e criticabilità dei provvedimenti in questione sono principi assolutamente naturali alle nostre istituzioni e andrebbero date per scontate in un regime non autocratico, ove vige la libera manifestazione del pensiero. Presentare tutto ciò come forma di responsabilità politica, magari nei confronti dell’opinione pubblica, ha i caratteri della complicazione teorica non necessaria. Non si tratta che dell’applicazione dell’art. 21 della Costituzione.

Dunque, riassumendo né il ddl Castelli, né l’attuale legge Mastella prevedono alcuna forma di responsabilità civile per i magistrati. L’unica forma di responsabilità è ancora quella disciplinare.

Ma questa può dirsi effettiva? Allo stato attuale purtroppo no. E ciò ha sicuramente un riflesso negativo sulla pubblica opinione.

L’unica forma di responsabilità del magistrato è quella disciplinare, che non sembra offrire molti risultati. Infatti il prof Giuseppe Di Federico, quando il testo normativo proposto dal ministro Mastella era ancora al Senato, criticò fortemente la proposta. Il testo, secondo Di Federico, è un vero e proprio regalo all’Anm. Infatti[32] “nonostante la legge preveda vagli rigorosi, negli ultimi 40 anni tutti i magistrati sono stati promossi a tutti i livelli della carriera con valutazioni altamente laudative e tutti hanno raggiunto il massimo della carriera ed il più alto livello di stipendio e pensione, con la sola eccezione di coloro che avevano subito gravissime condanne disciplinari o penali (molto spesso tuttavia la bocciatura ha ritardato solo di qualche anno il pieno svolgimento della carriera e dei relativi vantaggi economici);

Inoltre “nei 40-45 anni in cui di regola rimangono in servizio i nostri magistrati non subiscono, da ormai 40 anni, nessun concreto vaglio di professionalità e tutti risultano formalmente grandi giuristi e grandi lavoratori. Utilizzando ricerche da me condotte su decine di migliaia di promozioni effettuate a partire dagli anni ’60, all’inizio del mio mandato di consigliere del Csm ho presentato una relazione (riportata integralmente nel verbale del 13 novembre 2002) nella quale si documentavano le molteplici conseguenze negative derivanti dalla pluri-decennale assenza di valutazioni della professionalità dei nostri magistrati. Nessuno degli altri componenti del Csm ha sollevato obiezioni –né avrebbero potuto- sulla veridicità della mia relazione. Tanto che in quella stessa seduta il Csm decise di istituire una commissione di studio per meglio effettuare, in futuro, le valutazioni di professionalità dei magistrati in occasione delle promozioni (le proposte di quella commissione non hanno tuttavia avuto alcun effetto). In quella mia relazione iniziale, e poi più volte nel corso dei 4 anni di lavoro consiliare ho ricordato che nei lavori della Costituente non vi era nessuna indicazione che il termine “promozione” utilizzato all’art. 105 potesse avere un significato diverso da quello che ha nella lingua italiana. Che quindi le promozioni generalizzate e prive di sostanziale contenuto valutativo effettuate dal Csm negli ultimi 40 anni costituiscono di fatto la violazione di un importante obbligo imposto dal Csm stesso dalla nostra Costituzione. (…) Due postille. La prima. Dicendo e mostrando che per i 40-50 anni di permanenza in servizio i nostri magistrati non sono sottoposti a reali vagli di professionalità non voglio certo affermare che non vi siano magistrati di grande valore (con alcuni di essi ho a lungo collaborato, con Giovanni Falcone, con Adolfo Beria di Argentine, con Girolamo Minervini, ed altri ancora). I magistrati di grande valore sono tuttavia tali solo per virtù propria e non perché tutti i magistrati siano sospinti ad esserlo da efficaci stimoli istituzionali come avviene, invece, in altri Paesi europei ove i sistemi di promozione di magistrati sono cosa molto seria ed altamente selettivi.

Seconda postilla. Ho detto che finora le promozioni sono state temporaneamente negate solo a seguito di gravi violazioni disciplinari. Cosa sia una grave violazione disciplinare è concetto assai relativo che merita una illustrazione onde capire cosa significa per il Csm. Faccio il più semplice degli esempi di cui dispongo. Un pubblico ministero aveva dimenticato di ordinare la scarcerazione di un extracomunitario in detenzione preventiva e il malcapitato è rimasto in carcere per più di 15 mesi. Il pm in questione aveva ricevuto dal Csm la sanzione disciplinare dell’ammonimento (poco più di un buffetto). Il 18 febbraio 2004 il Csm ha deciso di promuovere comunque quel pm. A chi obiettava che il suo comportamento denotava mancanza di professionalità e diligenza, un consigliere ha risposto che dopotutto il pm era incorso in quella dimenticanza una sola volta e che quindi non si trattava di un comportamento abituale. Queste affermazioni non appaiono nel verbale del Csm, ma hanno tuttavia convinto la maggioranza dei suoi componenti.”.

L’articolo, riportato sopra nei suoi passaggi fondamentali, è stato commentato da Stefania Craxi,la quale, su il giornale del 20 luglio 2007, scrive:” Di Federico riconosce che nei quaranta e più anni del Csm vere valutazioni non sono mai state fatte. Tutti magistrati eccellenti, tutti infaticabili lavoratori, tutti meritevoli degli scatti di carriera e dello stipendio. E cita il caso di un pm che si era dimenticato in carcere per 15 mesi un extracomunitario, anch’esso graziato e promosso col mirabile argomento che l’aveva fatto una volta sola. L’esempio che fa Di Federico è niente rispetto a quello che si può leggere nel libro di Mauro Mellini La fabbrica degli errori. L’esame impietoso degli errori che si ripetono, le violazioni, le negligenze che caratterizzano l’andamento della giustizia italiana dovrebbero rendere cento volte più rigorose le valutazioni professionali. Invece niente; quel poco che c’era si cancella. Nella magistratura italiana conta solo l’anzianità. Il più somaro, il più sfaccendato dei magistrati finisce automaticamente la carriera con la qualifica, lo stipendio e poi la pensione di magistrato di cassazione.(…) Non è dunque il caso di meravigliarsi se la giustizia è all’ultimo posto nella considerazione degli italiani. Il guaio è che i guasti che procura la cattiva giustizia sono quasi sempre irreparabili. La condanna di Bruno Contrada, ormai rinchiuso nel carcere di Santa Maria di Capua Vetere dopo 25 anni di processi, ne è un esempio.”. Il fatto che i magistrati negligenti, non solo non paghino di tasca propria, non solo non vengano sanzionati, ma facciano addirittura carriera, è stato sottolineato da Stefano Zurlo il quale scrive[33]:”(…) Hanno fatto la loro ottima carriera anche i Pm del caso Tortora, storia di una vergogna da manuale. Enzo Tortora, popolarissimo presentatore televisivo, viene arrestato il 17 giugno 1983 su input della Procura di Napoli che lo ritiene un camorrista. Nell’agendina, trovata a casa di un delinquente, sono segnati a penna un nome e un numero di telefono. Per chi indaga portano a Tortora: «Sarebbe bastata una verifica di cinque minuti, per scoprire che Tortora non c’entrava nulla. Il numero, peraltro con un prefisso campano e non milanese, era quello di un rappresentate di bibite, Enzo Tortona o Tortosa, non ricordo bene», racconta oggi l’avvocato Raffaele Della Valle. Niente da fare: il presentatore resta in cella 7 mesi, intanto un miniesercito di pentiti, come spesso capita in storie del genere, gonfia le accuse. Il presentatore resta in cella 7 mesi, poi nell’85 viene condannato a 10 anni. L’anno dopo la svolta: la corte d’assise d’appello lo assolve con formula piena, la Cassazione conferma. Lui, ormai provato e vicino alla morte, torna in tv con poche, struggenti parole: «Sono qui, e lo sono anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono e sono molti e sono troppi». Un referendum, sull’onda dell’indignazione popolare, introduce in Italia la responsabilità civile dei magistrati: chi sbaglia paga. Ma l’istituto di fatto resta inapplicato. I due Pm vanno avanti per lo strada, lastricata di incarichi importanti: Lucio Di Pietro, solo omonimo del Tonino nazionale, è oggi viceprocuratore nazionale antimafia; Felice Di Persia è un pensionato, ma fino al 2005 ha avuto un incarico delicatissimo: Procuratore aggiunto a Napoli con delega all’antimafia. Nel suo curriculum anche un passaggio, prestigioso, al Consiglio superiore della magistratura(…)”.

Come si vede, a prescindere dal merito delle valutazioni, attorno alla questione oggetto di questo scritto, vi è un’accesissima battaglia politica attorno al ruolo svolto dalla magistratura negli ultimi 15 anni. Onde dipanare ogni ambiguità, sarà bene fare un breve cenno alle diverse letture del fenomeno di Tangentopoli, perché è quello il cuore del problema, è quella la chiave per interpretare correttamente l’impossibilità di svolgere serene riflessioni attorno al problema della responsabilità civile dei giudici senza essere tacciati ora di faziosità ora di giustizialismo; ora di garantista peloso ora di forcaiolo; tutti termini, questi, ripetuti in maniera ossessiva dai media ogni volta che si prova a riformare l’ordinamento giudiziario o quando c’è una nuova legge da approvare.

Sarà dunque bene spiegare perché la polemica attorno ai giudici è aspra più che mai e come, ogni volta che si legge il giornale o si ascolta la televisione, ci si trova dinnanzi ad una sorta di ordalia tra politici e giudici; tra giornalisti di varia estrazione culturale che duellano con interpretazioni di fatti e sentenze; con giuristi più o meno impegnati che sdottoreggiano su istituti e codici dalla mattina alla sera.

Il punto è questo.

Ci sono, grosso modo, tre interpretazioni di Tangentopoli[34], ma prima bisogna partire da una premessa. Si può ragionevolmente sostenere che gli inizi degli anni Novanta in Italia, sebbene non abbiano condotto dalla prima alla seconda Repubblica, abbiano costituito un periodo “rivoluzionario”. Una conferma indiretta in tal senso proviene anche dalle riflessioni che storici, politologi, sociologi e giornalisti hanno dedicato alla cosiddetta “transizione italiana”. Non certo casualmente, infatti, gli approcci prevalenti –sia sotto il profilo metodologico che contenutistico-sono sembrati ricalcare quelli utilizzati per analizzare i grandi processi rivoluzionari della storia contemporanea. In una schematizzazione sommaria, un primo filone potrebbe definirsi “complottistico”: un classico che Francoçois Furet ha mostrato immancabile nelle bibliografie di tutte le fasi rivoluzionarie. In esso confluiscono le storie più “militanti”, le memorie e le ricostruzioni giornalistiche che, da sponde opposte e spesso da opposti giudizi di valore, hanno accreditato il nesso diretto e inscindibile tra quel rivolgimento della vita politica italiana e il fenomeno di Tangentopoli. Detto in forma priva di nuances, in quest’ambito devono ricondursi le analisi che individuano nella magistratura il soggetto principe dei cambiamenti avvenuti in Italia in quegli anni. La tesi non può, in ogni caso, essere liquidata con una scrollata di spalle. Luciano Cafagna ha sostenuto che Tangentopoli, nella sua essenza è stata una vera e propria “guerra civile tra poteri dello Stato”. Se ciò è vero, appare evidente che tra le diverse armi impiegate nel corso di questo conflitto, la produzione retorica ha avuto un suo ruolo importante, a volte decisivo sul terreno della lotta politica.

Del resto, non va dimenticato, ricorda Quagliariello, che il linguaggio da guerra civile si innesta sulle tradizioni politiche di un paese come l’Italia, in cui la delegittimazione dell’avversario segna una costante storica. Vi sono molte memorie e studi settoriali che seguono tale linea interpretativa in forma “pura”. Ma, a una visione d’insieme, il grande sistematore della teoria del complotto[35] è stato l’ex-presidente della Repubblica Francesco Cossiga il quale, nel suo Per carità di patria, definisce Tangentopoli un “colpo di stato legale” operato da un potere dello Stato per distruggere le forze politiche egemoni. Dello stesso avviso anche Giuliano Ferrara. Il direttore del Foglio riterrà di[36] “ accompagnare tutto il 2003 con un’inchiesta storico-giornalistica che risulterà tra le più complesse e lunghe mai realizzate dalla stampa italiana.(…)Il tema della rievocazione è il 1993, l’anno in cui fu abrogata per via giudiziaria la vecchia e infragilita democrazia dei partiti.(…). Gli eroi di questa storia e le comparse, noi compresi, sono anche pupi agiti dalle circostanze e attori di una tragicommedia che ha messo in scena una moltitudine di primedonne, qualche detestabile caratterista gigione ed è firmata da molti autori e da qualche anonimo. Ma il copione ha una sua logica che solo gli ingenui e i furbi ancora negano. La lotta per il potere.”

Il complotto diviene così premessa di un fenomeno più generale, il colpo di stato, appunto, che minaccia l’avvento di un vero e proprio regime giudiziario dai tratti inevitabilmente autoritari, oltre ad avere conseguenze sul ceto politico locale e nazionale di “straordinaria ingiustizia”.

Nella vasta letteratura politica sul tema, si ritrovano anche le teorie di quanti forniscono un’interpretazione “buonista” del complotto, visto come “rivoluzione legale”[37] o, comunque, come l’avvio di un processo di ripristino della legalità. Su tutti, vedi Antonio Di Pietro e Luciano Violante, con delle analisi di diverso taglio e fattura ma convergenti sulla tesi di fondo. Infine, accanto a studi che tanto debbono alla passione politica, si collocano, per alcuni versi, alcune storie generali della repubblica, come quella di Pietro Scoppola e quella di Paul Ginsborg che dedicano uno spazio preminente agli attori politici e giudiziari della transizione. L’approccio più diffuso si può però definire di tipo evenementielle o ancora meglio –attraverso una traduzione non propriamente letterale- di tipo congiunturale. Comprende una serie di studi i quali, piuttosto che concentrare l’attenzione sulle degenerazioni strutturali del sistema o sulle persistenze storiche, favoriscono la considerazione degli eventi, dei fattori e dei soggetti che, a seconda dei casi, sono ritenuti decisivi nel determinare forme e tempi della transizione. In questa categoria si possono incontrare, innanzi tutto, analisi che hanno spiegato il fallimento della “partitocrazia”sul terreno delle politiche pubbliche (debito pubblico, pensioni, privatizzazioni e mercato del lavoro). Tra queste particolare importanza riveste un’opera collettiva curata da Maurizio Cotta e Pietrengelo Isernia, Il gigante dai piedi di argilla,nella quale si sostiene che la degenerazione s’innesca a partire dagli anni Ottanta, allorquando il sistema partitico sempre più chiuso e ripiegato su se stesso, si sarebbe rivelato incapace per questo di rispondere sul terreno delle politiche pubbliche alle esigenze di una società in rapida trasformazione. Le diagnosi, invece, che insistono sulla moralità della classe politica nazionale e locale (corruzione, clientelismo,ecc.) come principale fattore di crisi, possono a buon diritto considerarsi studi che condividono la stessa impostazione dei precedenti ma, se possibile, da un angolo visuale ancora più ristretto. Sempre in questa medesima categoria, s’incontrano studi che hanno insistito sull’azione di specifiche  personalità che avrebbero provocato (o accelerato) la fine della prima repubblica e altri dedicati a fenomeni specifici, come ad esempio i lavori di Ilvo Diamanti sulla Lega Nord. Non mancano neppure quelli che insistono sui flussi elettorali e sui mutamenti dell’opinione pubblica. Votes count, ha scritto a caldo Gianfranco Pasquino nel 1992, con ciò esprimendo un’ovvietà che, però, fino a quel momento era parsa poco degna di considerazione a causa del carattere bloccato del sistema. I terremoti elettorali del 1992 e anche del 1994, dunque, hanno dato vita a una vasta messe di lavori dedicati a uno dei fenomeni decisivi della transazione: il dealignment dei tradizionali blocchi politici ed elettorali. Vi sono le analisi sull’avvio –o sul mancato avvio- delle riforme istituzionali. Il tema travalica il timing della transazione 1989-1994, comprendendo da un canto i tentativi di riforma degli anni Ottanta e dall’altro quelli dei maturi anni Novanta. Si possono al proposito ricordare alcuni studi su aspetti specifici che investono gli anni della transizione –come, ad esempio, Fusaro sul mutamento delle regole elettorali e Randelli sui nuovi sindaci- e tanti altri con un impianto, per così dire, più generalista. Nel prendere in considerazione la terza categoria di teorie, si passa ad analisi che, a differenza di quelle fin qui citate, considerano prevalentemente una prospettiva storica di longue dureè. In quest’ambito, un approccio caratteristico è quello che tende a ricondurre i problemi della transizione non già ai problemi dell’evoluzione del sistema politico repubblicano al cospetto di nuove e imprevedibili contingenze storiche quanto, piuttosto, ad alcuni tratti persistenti nel continuum della politica dello Stato unitario. Per questa ragione, tale filone sembra rinverdire quella diagnosi pessimistica sull’autobiografia della nazione che dalle analisi sul fascismo di ascendenza gobettiana si trasferì a quella che, con formula quanto mai felice, Rosario Romeo definì “la storiografia della disfatta”. Un capostipite del genere può essere individuato nel libro di Massimo Salvatori, che ripercorre l’intera storia d’Italia attraverso tre “crisi di regime”: dal regime liberale al regime fascista, dal regime fascista al regime repubblicano, dalla prima repubblica alla seconda repubblica. Per l’autore, l’assenza di un’alternativa di governo avrebbe accomunato i tre diversi regimi, le cui classi dirigenti hanno visto nei loro oppositori dei veri e propri nemici: i cattolici e i socialisti per i liberali, gli antifascisti per i fascisti, i comunisti per la classe di governo dell’Italia repubblicana. Al di là di tutte le differenze che intercorrono tra queste diverse fasi della storia d’Italia esisterebbe, secondo Salvatori, un filo comune: l’impossibilità di una democrazia dell’alternanza, la cui persistenza sarebbe stata garantita dall’assenza di un ethos nazionale condiviso dagli attori politici e sociali e, inevitabilmente, l’analisi perde pregnanza scientifica per accostarsi, a detta di Quagliariello, ai territori della propaganda. La tesi dominante è che la transazione, iniziata come uno scontro tra “trasformismo” del sistema politico e “giacobinismo” dei giudici, avrebbe finito fatalmente per lasciarsi attrarre dalle “sirene del populismo”berlusconiano. La categoria del populismo è utilizzata a man bassa da Paolo Flores d’Arcais. Essa non ha come orizzonte di riferimento il complesso discorso sulla democrazia come combinazione di procedure e di appello al popolo, quanto piuttosto una situazione italiana drammaticamente in bilico tra “rivoluzione liberale” e “deriva peronista”. Nell’immaginario di Flores, la deriva peronista era già operante negli anni di Craxi. Interrotta dalla “rivoluzione della legalità” dei giudici di Milano, essa sarebbe stata ripresa, con ben altri mezzi, da Berlusconi. Lo sbocco di questa lunga deriva è la costruzione di un “regime”, immancabilmente richiamato nel sottotitolo del libro che raccoglie il nocciolo duro della sua analisi. D’altro canto, la nascita del “regime” berlusconiano è stata anche annunciata da uno storico di professione, Nicola Tranfaglia. Egli scrisse, all’indomani delle elezioni del 13 maggio 2001, che l’Italia stava entrando “nella fase accelerata di costruzione di un regime fortemente autoritario e, da questo punto di vista, sempre più lontano da quello democratico”.

Vi è, infine, un’ultima categoria di studi da considerare. È quella di cui –al di là delle tesi sostenute dai diversi autori- Quagliariello ritiene di condividere l’approccio. Con un po’ di enfasi, la si potrebbe definire d’impronta tocquevilliana, perché raccoglie le analisi che tendono a spiegare la transizione italiana come punto di approdo di dinamiche degenerative del sistema politico di lunga durata.

Uno studio in tal senso emblematico può considerarsi la Storia d’Italia di Piero Craveri. Sulla scorta della ricostruzione dell’evoluzione politica a partire dall’immediato dopoguerra, l’autore individua nella fine della solidarietà nazionale il momento nel quale il sistema perde la possibilità di dare vita a soluzioni di carattere espansivo. In altri termini, il funzionamento ad sub-includendum del sistema politico italiano si era esaurito con i governi Dc-Pci, confinando per questo gli anni Ottanta a occupare un posto tutto sommato residuale nella storia d’Italia. Da altra prospettiva analitica, lo stesso Scoppola ha sottolineato che le coalizioni degli anni Ottanta hanno espresso un centrismo debolissimo, perché già all’inizio del decennio era oramai avvenuta una mutazione genetica del sistema politico: il centro democristiano non possedeva più la forza aggregante verso sinistra che aveva avuto in passato, mentre dal canto loro i partiti intermedi (in particolare quello repubblicano e quello socialista), una volta chiusa la parentesi dell’alleanza Dc-Pci, sviluppano un “potere di coalizione” e una “posizione di rendita” molto più forti che in precedenza. Alessandro Pizzorno, dal canto suo, ha insistito sulla dissoluzione dei partiti di integrazione di massa, pilastri del sistema politico italiano sorto nel 1948. Dopo la fine della solidarietà nazionale, i partiti di integrazione di massa entrano nella fase decisiva della crisi del loro potere, accelerando una fase di mutazione genetica che vede i partiti passare da strumenti di socializzazione dei cittadini a grandi organismi disgregati nei quali le istanze periferiche cessano di rispondere al centro: correnti,clan, organizzazioni locali si integrano con segmenti della società civile e del potere economico e danno vita a un complesso politico organizzato attorno al “sistema fiscale secondo”. Nel complesso, l’approccio sistemico concentra l’attenzione sui crescenti costi di un sistema e di una classe politica che non è più in grado di rispondere ai bisogni prodotti dal mutamento sociale.

In questo solco, il venir meno del blocco garantito dall’ordine internazionale bipolare rappresenta la causa scatenante della crisi, al punto da far ritenere che, per quanto concerne le dinamiche sistemiche, la genesi della transizione italiana abbia una parentela stretta con quelle della cosiddetta “terza ondata” avviatasi nel 1989. Gli altri elementi –questione settentrionale, Tangentopoli, mutamenti elettorali- debbono perciò considerarsi come i prodotti più tardi di una crisi che incubava da decenni e, insieme, come elementi che ne hanno accelerato lo svolgimentoe amplificato gli effetti.

In ogni modo, la non concordanza sull’inquadramento complessivo di Tangentopoli, e la polemica incessante sul ruolo che ha svolto e che svolge la magistratura nella dialettica dei poteri, rendono impossibile, come sopra affermato, ogni tentativo serio di ripensare la figura del giudice e la sua responsabilità. Ciò a discapito dei cittadini, che ogni giorno sono sempre più sfiduciati sia dalla politica che dalla magistratura. Il fatto è che in Italia sia diffuso il senso di vivere una condizione di “Malagiustizia” per citare un recente libro di Davide Giacalone

Della sfiducia dei cittadini nei confronti della giustizia italiana, sono testimonianza anche le numerose associazioni che da tempo denunciano, si battono e assumono iniziative di protesta. Due fra tutte: l’associazione Giustiziagiusta, del cui fondatore, Mauro Mellini, si è già detto sopra; e l’associazione Movimento per la Giustizia Robin Hood.

Entrambe queste associazioni hanno riportato con entusiasmo sui propri siti internet la sentenza 13 giugno 2006 della Grande Sezione della corte di Giustizia U.E.

Questa sentenza può avere un impatto a dir poco rivoluzionario sul nostro sistema.

Infatti la Corte di Giustizia sancisce: “Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.

Infatti, escludere, in simili circostanze, ogni responsabilità dello Stato equivarrebbe a privare della sua stessa sostanza il principio secondo il quale gli Stati membri sono tenuti a risarcire i danni cagionati ai singoli da violazioni manifeste del diritto comunitario derivanti dalla decisione di un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, in quanto una siffatta esclusione non garantirebbe ai singoli una tutela giurisdizionale effettiva dei diritti che il diritto comunitario conferisce loro.”

Inoltre, la Corte afferma che “La responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a causa di una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado può sorgere nel caso eccezionale in cui tale organo giurisdizionale abbia violato in modo manifesto il diritto vigente. Tale violazione manifesta si valuta, in particolare, alla luce di un certo numero di criteri quali il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell’errore di diritto commesso, o la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234, terzo comma, CE, ed è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia.

A tal proposito, se non si può escludere che il diritto nazionale precisi i criteri, relativi alla natura o al grado di una violazione, da soddisfare affinché possa sorgere la responsabilità dello Stato per la violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado, tali criteri non possono, in nessun caso, imporre requisiti più rigorosi di quelli derivanti dalla condizione di una manifesta violazione del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Kobler.

Pertanto il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente”.

Così la sentenza della Corte di Giustizia.

È ovvio che una tale sentenza,riportata dai media, abbia suscitato scalpore in dottrina così come fra gli operatori del diritto.

Su “La Voce di Robin Hood” , l’Organo del Movimento per la Giustizia Robin Hood, si è detto che “la legge 117/1988 viola i principi dell’ordinamento comunitario, nella parte in cui limita arbitrariamente l’ambito della responsabilità civile dei magistrati”. E si sostiene inoltre “l’efficacia immediatamente precettiva della sentenza 13 giugno 2006 della grande sezione, ai sensi della giurisprudenza della Corte costituzionale”.

Non è il caso di approfondire qui il tema dell’impatto sul nostro ordinamento di questa sentenza che sta già appassionando la dottrina. È però necessario augurarsi che la giurisprudenza comunitaria, insieme alla sempre maggiore integrazione europea, possano contribuire a razionalizzare sempre di più il nostro sistema giuridico.

Sembra allora il caso, in conclusione, di riportare un passo del libro L’esperienza critica del diritto di un grande storico del diritto, il napoletano Raffaele Ajello, con la speranza, un giorno di potergli dare ragione:

“Ma per fortuna il mondo non finisce alle Alpi, e l’integrazione delle popolazioni e delle culture, affinché ciascuna di esse dia il meglio che può alla realizzazione degl’interessi comuni, è una forza che nuovi egoismi, analoghi a quelli che si vestivano di carità e di fede animando fallimentari crociate, non sono più in grado di arrestare”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

1)Raffaele Costa, L’Italia dei privilegi, a cura di un privilegiato; Mondatori, 2002

2)Bruno Tinti(a cura di),Toghe Rotte, chiarelettere, 2007.

3) R. Bin –G. Pitruzzella, Diritto costituzionale,Giappichelli, 2006

4)Roberto Gervaso, I destri. Da D’Annunzio a D’Alema.; Mondatori, 1998.

5)Vittorio Sgarbi, Onorevoli fantasmi; Mondatori, 1994.

6) Vincenzo Caianiello, La giustizia penale tra funzione e missione,pubblicato in Le ragioni del socialismo del giugno 1998; ID. I giorni del terrore, pubblicato in Liberal n. 10 del 2002; Giustizia: torniamo alla Costituzione, pubblicato in Ideazione n. 1 del 2002; La legalità, oggi, pubblicato in Jus, 1996; Formazione e selezione dei giudici in una ipotesi comparativa, pubblicato in Giurisprudenza italiana 1998. Tutti questi interventi, e altri, si trovano ora raccolti in Vincenzo Caianiello, Istituzioni e liberalismo,a cura di Fabio Cintioli, Rubbettino Editore, 2005.

7) La “vittoria perduta”dei garantisti; intervista a Mauro Mellini di Eugenia Roccella, in Ideazione, 5-2003.

8) . Francesco Gazzoni, Manuale di diritto privato, ESI, 2007.

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10) G. ZAGREBELSKY, La responsabilità del magistrato nell’attuale ordinamento: prospettive di riforma, in Giur. Cost. 1982,

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17)G.SILVESTRI, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale,Torino 1997, p.209.

18)S. BARTOLE,Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario,Padova 1964, p.240.

19) F.BIONDI, La responsabilità del magistrato,TESI DI DOTTORATO DI RICERCA, PAPER

20) N.ZANON, Pubblico ministero e Costituzione, Padova 1996

21) R. GUASTINI Art. 101, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca e A.Pizzorusso, Bologna-Roma 1994; Id., Il giudice e la legge,Torino 1995, pp. 99-100; id., Le garanzie dei diritti costituzionali e la teoria dell’interpretazione,in analisi e diritto, 1990, a cura di P.Comanducci e R.Guastini, Torino 1990, p.111

22)G.SILVESTRI, Sovranità popolare e magistratura, Atti del convegno di studio nel centesimo anniversario della CEDAM, pp.15-16 del paper.

23) E. DOLCINI, Leggi penali ad personam, riserva di legge e principio costituzionale di uguaglianza, in Rivista italiana di diritto e proceura penale, 2004;

24)A. PUGIOTTO, La legge interpretativa e i suoi giudici. Strategie argomentative e rimedi giurisdizionali, Milano 2003;

25)G.VOLPE, Sulla responsabilità politica dei giudici, in Scritti in onore di C. Mortati, vol. IV, Roma 1977, 809 ss.

26) G.Zagrebelsky, La responsabilità del magistrato nell’attuale ordinamento. Prospettive di riforma;

27) Gaetano Quagliariello, La prima repubblica: continuità e discontinuità, in Il Berlusconismo, Free Foundation,2007.

28)Fabrizio Cicchitto, L’uso politico della giustizia, Mondadori, 2006;

29)Giuseppe Gargani con Carlo Panella, In nome dei pubblici ministeri. Dalla Costituente a Tangentopoli:storia di leggi sbagliate. Mondadori (1998), 2007.

30)Giuliano Ferrara, Il presente storico per servire un piatto indigesto: il 1993; il Foglio, 13 gennaio 2003.

31)Marco Travaglio, La repubblica delle Banane (con Peter Gomez),2001; Mani Pulite. La vera storia. (con Gianni Barbacetto e Peter Gomez); Bananas, Garzanti, 2003; Il manuale del perfetto impunito. Come delinquere e vivere felici.; Garzanti, 2000.

32) R.Ajello, L’esperienza critica del diritto, Jovene editore, 2000.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


[1] Raffaele Costa, L’Italia dei privilegi, a cura di un privilegiato; Mondatori, 2002

[2] Sul degrado della giustizia italiana e sulle condizioni di lavoro a cui sono ridotti i magistrati si può leggere con gusto: Bruno Tinti(a cura di),Toghe Rotte, chiarelettere, 2007.

[3] Cfr. R. Bin –G. Pitruzzella, Diritto costituzionale,Giappichelli, 2006

[4] Infatti, secondo M.Cicala funziona con buoni risultati per i danneggiati l’istituto della riparazione per ingiusta detenzione (ampliato dalla legge “Carotti”479/1999) che prescinde da una responsabilità del magistrato (si veda l’ampio studio contenuto nel Dossier mensile 3/2000 della Guida al Diritto).

[5] Infatti, precisa M.Cicala “I disegni di legge che sono sfociati nella legge 117/1988 erano tutti assai simili, anche quando provenivano da esponenti del partito socialista”.

[6] Cfr. Roberto Gervaso, I destri. Da D’Annunzio a D’Alema.; Mondatori, 1998.

[7] Cfr. Vittorio Sgarbi, Onorevoli fantasmi; Mondatori, 1994.

[8] Cfr. Vincenzo Caianiello, La giustizia penale tra funzione e missione,pubblicato in Le ragioni del socialismo del giugno 1998; ID. I giorni del terrore, pubblicato in Liberal n. 10 del 2002; Giustizia: torniamo alla Costituzione, pubblicato in Ideazione n. 1 del 2002; La legalità, oggi, pubblicato in Jus, 1996; Formazione e selezione dei giudici in una ipotesi comparativa, pubblicato in Giurisprudenza italiana 1998. Tutti questi interventi, e altri, si trovano ora raccolti in Vincenzo Caianiello, Istituzioni e liberalismo,a cura di Fabio Cintioli, Rubbettino Editore, 2005.

[9] Cfr. La “vittoria perduta”dei garantisti; intervista a Mauro Mellini di Eugenia Roccella, in Ideazione, 5-2003.

[10] Cfr. Francesco Gazzoni, Manuale di diritto privato, ESI, 2007.

[11] Cfr. Nicolò Zanon, La responsabilità dei giudici, Convegno Annuale dell’Associazione Italiana costituzionalisti, Padova, 22-23 ottobre 2004, paper.

[12] come fa G. ZAGREBELSKY, La responsabilità del magistrato nell’attuale ordinamento: prospettive di riforma, in Giur. Cost. 1982, p.780-781

[13] sempre da G. ZAGREBELSKY, op.cit.p.792

[14] queste ed altre espressioni vengono tematizzate problematicamente in F.BIONDI, La responsabilità dei magistrati, Tesi di dottorato, Milano, 2003.

 

[15] C. SCHMITT, Der Huter der Verfassung(1931), trad. it. Il custode della Costituzione

[16] M.DOGLIANI, La formazione dei magistrati, in Magistratura, Csm, e principi costituzionali, a cura di B.Caravita, Roma-bari 1974, p.140

[17] ben difficile è infatti definire “responsabilità del giudice” quella che si verifica in occasione della rivalsa dello Stato nei suoi confronti: come scrive E. FAZZALARI, Una legge difficile, in Giur. Cost., 1989, I, 105, la verità è che la responsabilità del giudice è, in caso di colpa grave, soltanto un modo di dire.

[18] le espressioni sono usate in senso parzialmente diverso da quello usato da A.GIULIANI-N.PICARDI, La responsabilità del giudice,Milano 1995.

[19] in particolare, S. BARTOLE, Osservazioni sulla c.d. giurisdizione disciplinare giudiziaria, in Giur.cost.,1963, 1196; G.SILVESTRI, Giustizia e giudici nel sistema costituzionale,Torino 1997, p.209.

[20] S. BARTOLE,Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario,Padova 1964, p.240.

[21] sull’illecito disciplinare come illecito di danno di tale tipo cfr. la giurisprudenza citata da F.BIONDI, La responsabilità del magistrato,p.152 del paper.

[22] F.BIONDI, La responsabilità del magistrato,p.155 del paper.

[23] cfr. ampiamente S.BARTOLE, Autonomia e indipendenza dell’ordine giudiziario,cit., p.173.

[24] sul punto cfr. N.ZANON, Pubblico ministero e Costituzione, Padova 1996, p. 227 ss.

[25] ad es. R. GUASTINI Art. 101, in Commentario alla Costituzione, a cura di G. Branca e A.Pizzorusso, Bologna-Roma 1994, p.171; Id., Il giudice e la legge,Torino 1995, pp. 99-100; id., Le garanzie dei diritti costituzionali e la teoria dell’interpretazione,in analisi e diritto, 1990, a cura di P.Comanducci e R.Guastini, Torino 1990, p.111.

[26] cfr. G.SILVESTRI, Sovranità popolare e magistratura, Atti del convegno di studio nel centesimo anniversario della CEDAM, pp.15-16 del paper.

[27] il punto è sottolineato di recente, dal cruciale angolo visuale del principio di legalità in materia penale, da E. DOLCINI, Leggi penali ad personam, riserva di legge e principio costituzionale di uguaglianza, in Rivista italiana di diritto e proceura penale, 2004, pp.50 ss.

[28] cfr. soprattutto la rigorosa e acuta analisi di A. PUGIOTTO, La legge interpretativa e i suoi giudici. Strategie argomentative e rimedi giurisdizionali, Milano 2003, pp. 401 ss.

[29] Una ricostruzione consapevolmente problematica dei termini della questione ne saggio di G.VOLPE, Sulla responsabilità politica dei giudici, in Scritti in onore di C. Mortati, vol. IV, Roma 1977, 809 ss.

[30] cfr. particolarmente M.RAMAT, Responsabilità politica della magistratura, in Foro amm., 1969, III, 15.

[31] Cfr. G.Zagrebelsky, La responsabilità del magistrato nell’attuale ordinamento. Prospettive di riforma,cit. p.793 ss.

[32] Cfr. l’intervento pubblicato su Libero 12 luglio 2007.

[33]Stefano Zurlo, Ecco la casta che non sbaglia mai. Promossi pure i giudici di Tortora, pubblicato su il Giornale il 14/08/07.

[34] Cfr. Gaetano Quagliariello, La prima repubblica: continuità e discontinuità, in Il Berlusconismo, Free Foundation,2007.

[35] Altri sostenitori di tale teoria sono, fra gli altri: Fabrizio Cicchitto, L’uso politico della giustizia, Mondadori, 2006; Giuseppe Gargani con Carlo Panella, In nome dei pubblici ministeri. Dalla Costituente a Tangentopoli:storia di leggi sbagliate. Mondadori (1998), 2007.

[36] Giuliano Ferrara, Il presente storico per servire un piatto indigesto: il 1993; il Foglio, 13 gennaio 2003.

[37] Questa tesi è stata proposta con vigore da Marco Travaglio in numerosi libri, tra cui:La repubblica delle Banane (con Peter Gomez),2001; Mani Pulite. La vera storia. (con Gianni Barbacetto e Peter Gomez); Bananas, Garzanti, 2003; Il manuale del perfetto impunito. Come delinquere e vivere felici.; Garzanti, 2000.